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NATE FEMMINE

RACCONTO DA "SCHEGGE DI VITA"
giovedì 9 maggio 2024 di Michela Orefice

Argomenti: Racconti, Romanzi


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Gina, Raffaella, Elisabetta e Maria erano quattro sorelle nate una dietro l’altra, nella speranza tutta paterna del maschio, per la continuazione della progenie. Vivevano insieme ai genitori in un bilocale angusto al piano terra, di proprietà di Ettore, marito della signora Pupella, situato di fronte a casa di nonna Luciana, accanto alla tabaccheria.

Un soggiorno - cucina con due piccoli divani letto, un bagno e una camera da letto matrimoniale. La strada era un prolungamento obbligato del poco spazio a disposizione per giocare. Poco anche il tempo del gioco, perché le giovani mani avevano dovuto imparare presto a destreggiarsi sulla macchina da cucito per sbarcare il lunario. Il padre, manovale edile occasionale, non era mai stato un gran lavoratore e cinque bocche da sfamare era tante.

Abbandonati gli studi, lavoravano a pieno ritmo, mal pagate e senza un regolare contratto, presso un’azienda locale che confezionava abiti da cerimonia. La loro massima aspirazione era un matrimonio con un buon partito, per non dover più lavorare né vivere in ristrettezza economica. In poche parole la realizzazione attraverso un’altra persona, l’acquisizione del titolo di signora emblematico di elevazione sociale.

La madre, Immacolata, era una donna tracagnotta, con occhi neri piccoli e vispi, pelle molto scura, tanto che il vicinato l’aveva ribattezzata col nome “la nera”. Veniva ogni mattina a comprare il pane trattenendosi oltre il dovuto per raccontare alle altre clienti gli ultimi gossip locali o i colpi di scena della soap opera sudamericana “Andrea Celeste”, che in quegli anni spopolava tra le massaie. Alle 18:30, orario della puntata, si fermava tutto. Le televisioni in ogni casa erano sintonizzate sul canale 9 e per strada era come quando l’Italia disputava una partita di qualificazione ai mondiali: total audio surround.

Somigliavo vagamente alla protagonista nei tratti somatici, oltre che per il colore degli occhi e i capelli lunghissimi. Una mattina d’autunno, mentre camminavo lungo via Milano verso scuola, alcune signore in vestaglia e bigodini, affacciate al balcone, mi chiamarono per sapere se fossi Andrea Celeste e, nonostante avessi risposto loro di no, continuarono a salutarmi chiamandomi Andrea, quasi tutte le mattine del mio terzo anno di scuola media. Trovavo sorprendente la loro ingenuità. Mi chiedevo come avessero potuto pensarlo, dato che produzione, autori e attori erano palesemente stranieri, argentini per la precisione.

Oltre alla non corrispondenza del doppiaggio con il labiale, parlando gli attori la lingua spagnola. Le uniche spiegazioni logiche a cui potessi pensare erano due: il labiale in molti casi corrispondeva alla parola doppiata in italiano, dato che erano entrambe lingue neolatine oppure le signore desideravano così fortemente conoscere e consolare la povera orfanella della soap, senza alcuna distinzione tra realtà e finzione, da arrivare a pensare che fossi io.

Nei pomeriggi d’inverno, quando ancora in quella stagione faceva freddo, capitava che le quattro ragazzine tornassero da lavoro e non trovassero nessuno a casa ad aspettarle. Allora si sedevano sul gradino della porta d’ingresso, rannicchiate e molto vicine l’una all’altra per riscaldarsi, in attesa che arrivasse qualcuno ad aprire loro la porta. Molte volte nonna Luciana, dai vetri della finestra che dava sulla strada, si accorgeva di loro e, vedendole infreddolite e stanche, le invitava ad entrare in casa e aspettare i genitori davanti al camino e a una buona tazza di caffè.

Delle quattro, solo Elisabetta era riuscita a sistemarsi con un bravo ragazzo di famiglia agiata. La più graziosa e delicata delle sorelle, aveva incontrato Antonio, un geometra con uno studio ben avviato in piazza. Si sarebbero sposati, di lì a qualche anno, nonostante la strenua opposizione dei familiari di lui per l’eccessiva disparità culturale e sociale tra i due innamorati. Alla sua festa di addio al nubilato, nel cortile di casa mia attrezzato con cucina e tavolo, avevano partecipato tutte le ragazze del vicinato di nonna. Non festeggiammo l’imminente matrimonio, ma la rivincita di Catherine ed Heathcliff, di un amore osteggiato e sofferto che alla fine aveva trionfato. Tuttavia il destino, nel suo essere democratico, non fa sconti a nessuno. Elisabetta lasciò prematuramente il marito Antonio e i loro due figlioletti, stroncata in pochi mesi da un osteosarcoma.

Raffaella si era felicemente accasata con un vanaglorioso carabiniere, paladino della giustizia, dalle cui labbra pendeva in totale ammirazione. Gina e Maria sposarono due onesti muratori.

Nelle periferie l’evoluzione dei costumi e le rivoluzioni sociali arrivano più tardi, come un’onda che perda vigore incanalandosi e distribuendosi nelle ramificate venature dell’ignoranza e di un’ostinata rassegnazione a un immutabile status quo.

Erano passati meno di vent’anni dal Sessantotto e più recenti ancora erano gli strascichi del neo-femminismo che lo aveva seguito. La mobilitazione femminile di massa che aveva portato a importanti conquiste in campo sociale, politico e civile aveva avuto luogo nel resto del mondo, ma non ad Afragola.

Almeno questa era la mia impressione vedendo la vita che conducevano le quattro sorelle dirimpettaie, la signora Pupella maltrattata dal marito e le altre donne del vicinato. Pensare a un possibile futuro come il loro mi faceva rabbrividire, il desiderio di emancipazione era come un fuoco che mi ardeva dentro. Nonostante i miei 12 anni, avevo chiaro in mente ciò che non volevo essere.

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Michela Orefice
 

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