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Rubrica: CULTURA


Ridere bianco - ridere nero

Considerazioni sull’umorismo
sabato 19 aprile 2008 di Andrea Forte, Vivi Lombroso

Argomenti: Sociologia


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Circa l’umorismo e il ridere, hanno scritto grandi come Aristotele, Platone, Rousseau, Freud. Grandi personaggi tradizionali si sono mossi con notevole carica umoristica, vedi Socrate, Einstein, G.Bruno, Chopin. Ad esempio Chopin, che è morto giovane, tubercolotico, era anche famoso perché faceva delle scenette divertentissime, produceva battute, faceva sketch. Ma anche la tradizione spirituale ha suggerito che la capacità di ridere e far ridere era una qualità fondamentale del maestro. Sono famosi per questo maestri zen e chassidim; per non parlare della saggezza popolare che sostiene che il riso fa buon sangue.

Ridere fa bene, merita, può essere un antidoto contro la vita vista come tragedia, come lotta. Però abbiamo anche situazioni dove l’umorismo non compare. Un personaggio è il buon Gesù; testimoni diretti e indiretti hanno riferito tante cose oltre quelle nei Vangeli, ma non esiste una testimonianza su una risatina. Comunque, come c’è una tradizione sospetta di individui che non hanno riso, così c’è una tradizione di grande umorismo.

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F.Franchi - C.Ingrassia

Più o meno inconsciamente, gli individui desidererebbero essere divertenti, far ridere, rendersi simpatici, laddove qualche volta capita di riuscire ad imbroccare una battuta, un gesto, ma è una fortuna che capita ad una minoranza perché la maggioranza stenta, ed avviene saltuariamente. Addirittura, nello sforzo di far ridere, spesso gli individui peggiorano la situazione: allora l’amica che va da un’altra amica disperata e cerca di consolarla facendola ridere e non ci riesce, gli insegnanti che tengono lezione cercando di far ridere gli studenti, i venditori, alcuni attori etc. Se si riuscisse a capire meglio l’umorismo, si potrebbe nel peggiore dei casi acquisire uno strumento di lavoro controllato. Sappiamo quanto servirebbe nelle situazioni una dosatura di questa grossa componente umana di umorismo. Se si fosse bravi, si potrebbe pervenire al top dell’umorismo, cioè ridere di se stessi. Al vertice, c’è quella zona sempre conturbante dove non si sa bene dove arriva la follia e dove la saggezza, dove gli estremi si toccano e si confondono… ridere soli.

Recuperiamo alcuni elementi del ridere. Un primo elemento è che non esiste il ridere in sé e per sé, ma il ridere di qualcosa. Esiste il ridere con qualcosa/qualcuno, cioè per causale. Il ridere puro e semplice in assoluto non è concepibile. Allora per ridere bisogna essere almeno in due, da una parte il ridente, dall’altra il risibile, che può essere una cosa, animale, pianta, situazione, persona. Quindi un fenomeno bipolare, una bivettorialità, un percorso, un messaggio, dopo di che avremmo: ridente, risibile, e il campo, il cronotopo attraversato dal fatto comico. Questo messaggio non solo può alterarsi durante il percorso, ma ribaltarsi, quindi abbiamo un messaggio modificabile. Prendiamo una situazione semplice per capire il meccanismo. Un clown truccato e abbigliato in un certo modo emette un messaggio che va al bambino, il quale trova buffo il naso a patata e ride. Abbiamo un messaggio e una risposta a questo. Ma se prendiamo due bambini, uno riderà di più e uno di meno, magari perché uno è miope e l’altro no, oppure perché uno sta in prima fila e l’altro in decima fila. Il messaggio del naso a patata si modifica durante il percorso.

A questo punto perfezioniamo lo schema rendendoci conto che si può ridere di qualcuno/qualcosa e/o di se stessi, con qualcuno/qualcosa e/o con se stessi. La situazione è raddoppiata. Prendiamo il ridente, e ci accorgiamo che può ridere in due modi, su se stesso e nei confronti di se stesso, dell’alterità, con l’alterità, per l’alterità.

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Pennellate verdi?

Ma lo schema può essere ancora raddoppiato, perché se ci facciamo caso ci accorgiamo di un fenomeno, del fatto che ridere può abbassare il livello di vigilanza nei confronti dell’esterno, perché il fatto comico coinvolge. Mentre ci raccontano una barzelletta, ci distraiamo di più o totalmente dall’ambiente, c’è una vera e propria fasciatura sull’individuo da parte della cosa comica. Questo abbassamento lo chiameremo riso nero, deconsapevolizzante. Non bisogna confondere il ridere nero col ridere del nero. Basterebbe ascoltarsi mentre ci divertiamo, e accorgerci che se ci si abbandona alla comicità, ci si perde, ci si dimentica di sé (vedi la televisione, il cinema). È scontato che esiste il corrispettivo: ci può essere un innalzamento di consapevolezza. C’è l’esperienza per cui se uno sta normale e poi sopravviene una cosa comica, ridiamo ma aumenta in noi il sentore di esserci, ci sentiamo più io, più presenti, perché la cosa comica ha aumentato il livello di intensità del cronotopo in corso. Può capitare che ci si pensi mentre si sta ridendo molto; è tale divertimento che suscita in noi il sentore di sé. Questo ridere bianco e ridere nero si diversificano in molte funzioni. C’è un ridere bianco preventivo o come farmaco curativo, un ridere bianco fattore di conoscenza, di complicità, di intimità, e così varie forme di ridere nero. Allora se sono depresso, posso procurarmi dosi di comicità che si integrano col mio stato di ora, se sono euforico, non caccerò situazioni ulteriori euforiche.

Un’altra situazione che perfeziona lo schema è che il ridere non è legato ad un fatto estetico, né al fatto etico, ma è piuttosto un fatto edonistico, tende a procurare piacere, che tende a procurare comicità. D’altro canto il dispiacere tende a produrre drammaticità, che tende a produrre pianto.

Altra situazione è il ribaltamento. Una cosa che produce un tale divertimento, che si cade in uno stato di prostrazione, e così un dolore che si ribalta in una situazione comica.

Per finire, potremmo accorgerci che la maggior parte del nostro ridere non è coerente ma automatico, subìto, per cui siamo così incastrati che ridiamo coatti a seguito di meccanismi che, se scomposti, non sono motivo sufficiente per ridere. In fondo l’obiettivo è una scarica endorfinica.

 

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