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ALLEGORIE TEATRALI (EdizioniStudio 12, dicembre 2015)

Dante, Erodiade e Dora Maar secondo Luisa Sanfilippo

Tre testi teatrali conartistichescenografierievocano particolari momenti della vita interioreditre celebri personaggi
mercoledì 1 febbraio 2017 di Nica Fiori

Argomenti: Teatro
Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Luisa Sanfilippo


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Tre personaggi lontani molti secoli tra loro sono i protagonisti delle “Allegorie teatrali” di Luisa Sanfilippo, edite da Studio 12. Il divino poeta Dante, la peccatrice Erodiade, moglie di Erode Antipa e madre della sensuale Salomè, e la fotografa Dora Maar, musa di Picasso, sono accomunati in tre diverse situazioni immaginarie da una evocativa scrittura in forma di teatro, già portata in scena dall’autrice-attrice, con le coinvolgenti scenografie di Vincenzo Sanfilippo.

Si tratta di allegorie, o meglio “metafore scritturali”, nelle quali la parola viene tramutata in senso figurato, così da contrapporre sulla scena il testo scritto a quello dipinto. Ed ecco che Dante viene allegoricamente identificato con l’immagine di un pavone, Erodiade è accostata alla testa decollata di San Giovanni Battista e Dora Maar all’immagine di Picasso e del suo celebre dipinto Guernica.

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Luisa Sanfilippo

Al primo impatto la presenza del pavone riferito a Dante può suscitare qualche perplessità, perché si potrebbe pensare che il bell’uccello simboleggi la vanità, che non è certo così evidente in Dante, anche se traspare forse da alcuni versi della Commedia, quando per esempio cita i due Guidi (Guido Cavalcanti e Guido Guinizelli, poeti del dolce stil novo): “Così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido.” (canto XI del Purgatorio).

In realtà nel caso di Dante, più che di vanità, si tratta di consapevolezza del proprio valore e la scelta del pavone scaturisce dal racconto di Giovanni Boccaccio “Trattatello in laude di Dante”, in cui si parla del sogno di un pavone da parte della madre del poeta. All’epoca il pavone simboleggiava soprattutto l’immortalità (si riteneva che le sue carni fossero incorruttibili) e le sue penne dai caratteristici “occhi” erano quelle più adatte per raffigurare le penne angeliche (come non pensare all’occhio divino che tutto vede?), tant’è che le ritroviamo in celebri dipinti, ad esempio nell’Annunciazione del Beato Angelico del Museo San Marco a Firenze e in quella di Filippo Lippi della National Gallery di Londra.

Dante non appare direttamente sulla scena di “Dante. Imaginary conversations”, perché parlano solo la Commentatrice, l’Angelo-guida e la Veggente, ma il poeta è immaginato su un vascello, di ritorno da uno dei suoi viaggi, in un momento di profondo turbamento e sdegno, legato al suo irrevocabile esilio. Le figure femminili sono quelle più adatte per offrire stimoli e contenuti di natura psicologica, religiosa, filosofica e spirituale, che possano smuovere il poeta dal suo stato di cupa tristezza.

Nella seconda allegoria “L’universo interiore di Erodiade”, troviamo una donna matura che in un monologo si interroga sul proprio vissuto. L’autrice trasforma i funesti ricordi in “potenzialità introspettiva e intensità emotiva”, domandandosi se riuscirà Erodiade a riscattare la sua figura e se ci sarà per lei possibilità di salvezza. La protagonista ricorda in maniera ossessiva l’episodio relativo alla morte di San Giovanni Battista: “Danza per Erode, figlia mia… danza Salomè… mostra il tuo verginale ventre danzante.. chiedi a Erode la testa del Battista. La testa del Battista!”. Un peccato che Erodiade non si è mai del tutto perdonata e vorrebbe per esso la comprensione di Giovanni. La donna sogna il profeta e quasi venera l’urna con le ceneri della testa decollata.

Indubbiamente si tratta di un tema affascinante, perché Erodiade incarna la seduzione femminile (che condivide con la figlia) e la perfidia tipica della “strega cattiva”. Non per niente la notte che precede la festa di San Giovanni (24 giugno) è detta la notte delle streghe e a Roma le entità negative che vagano nell’aria sono identificate proprio con Erodiade e Salomè. Eppure nella sua tragica umanità l’antieroina creata dalla penna di Luisa Sanfilippo è commovente, sembra pentita e aspetta con amarezza la sua fine.

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Luisa Sanfilippo interpreta Dora Maar

Quanto a “Dora Maar-Picasso”, ovvero “la questione femminile nel campo artistico”, Dora ci fa immergere con i suoi ricordi nella genesi del grande dipinto di Picasso Guernica (1937) e rievoca la sua relazione travagliata con il famoso pittore, che a un certo punto la fa sentire “derubata della vita, degli affetti, dell’anima”. Lei che si è completamente dedicata per sette anni al suo amante, non solo come fotografa, che documenta e colleziona ogni piccola cosa del suo uomo, ma anche come pittrice che ricopia con piccolissime varianti le opere di lui, e perfino come poetessa, si rende conto che Picasso ama solo se stesso: “Tu Pablo non hai amato veramente nessuno nella tua vita. Non sai cosa sia l’amore… credi di saperlo ma non lo sai. Le donne entrano ed escono così facilmente dalla tua vita: tu le fissi sulla tela e quando sei stanco, le getti via”. Dora rievoca il suo malessere psicofisico dovuto all’abbandono, la “follia di averlo troppo amato”, ma, dopo tanto dolore, vuole ricordare solo la grandezza di artista di Pablo e il suo impegno politico.

Si tratta indubbiamente di testi drammatici colti, mai banali e intrisi di brani poetici, che ci stimolano sotto forma di conversazioni o monologhi immaginari ad approfondire la vita dei personaggi trattati e ad andare al di là del semplice momento storico evocato. Interessante è anche l’ampia descrizione dell’allestimento teatrale, spiegato nel testo da Vincenzo Sanfilippo e documentato da fotografie a colori.

 

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