Il padre del Petrarca, ser Petracco, notaio del collegio dei priori, era stato bandito da Firenze insieme a Dante e ad altri Bianchi ed era riparato ad Arezzo, dove la moglie, Eletta Canigiani, il venti luglio 1304, dette alla luce Francesco, al quale più tardi si aggiunse l’altro fratello Gherardo.
- LE RIME a cura di Adolfo Bartolo
A sette anni – come racconta con commossa evocazione Adolfo – incontra Dante: “Accorrevano festanti gli esuli Bianchi a Pisa incontro al biondo Arrigo VII ed era tra questi un uomo (il padre del Petrarca) che traevasi dietro moglie e due figli ancora in tenera età. Uno di questi fanciulli (il Petrarca) vide un giorno, forse nella casa paterna, un altro esule, non vecchio ancora ma sul cui volto, le lunghe speculazioni, i pensieri profondi, gli acuti dolori, dovevano avere impresso segni indelebili. Furono così per un momento in cospetto l’uno dell’altro, Dante e Petrarca: il passato e l’avvenire della letteratura italiana, il ferreo uomo che percorse la vita avvolto tutto nei suoi disegni, nelle sue ire, nelle sublimi fantasie dell’anima eccelsa, il poeta terribile che scolpì il medioevo e lo chiuse; e l’uomo irrequieto, lo spirito ondeggiante e soave, il dotto evocatore dell’antichità pagana, il poeta delle grazie e dell’amore, che sorgeva nunzio di nuovi tempi. Il lume spariva e gli succedeva l’uomo”.
- Arezzo , la casa di Petrarca
Francesco Petrarca trascorse i primi anni nell’avito podere dell’Incisa in terra di Valdarno, con la madre e con il fratello Gherardo. Il padre del poeta, non potendo dimorare nell’Incisa, in quanto sita ai confini dello Stato di Firenze da cui era stato bandito, dopo un breve soggiorno a Pisa, nel 1312 si trasferì con i figli e la moglie ad Avignone, sistemandosi presso la Corte Pontificia. Non trovando casa ad Avignone si sistemò nella vicina Carpentras dove Francesco iniziò lo studio della grammatica e della retorica sotto il maestro Convenevole da Prato.
Su desiderio del padre, avviato agli studi giuridici, preferì lo studio dei classici (Virgilio, Cicerone, Tito Livio ecc. nonché i Padri della Chiesa) invano contrariato dal padre.
Nel 1326, morto il padre, il venerdì santo del 1327 vide per la prima volta nella Chiesa di S. Chiara di Avignone “Laura”, una gentildonna che egli amò subito e per tutta la vita.
Il poeta compì molti viaggi in Francia, nelle Fiandre, in Germania, a Napoli e a Roma, visitando, tra l’altro, molte biblioteche alla ricerca di opere antiche dimenticate o credute perdute. A Liegi scoprì due orazioni di Cicerone e a Verona le epistole “Ad Atticum” dello stesso autore.
- Il primo incontro con Laura
In Valchiusa, a poche miglia da Avignone, il primo settembre del 1340 gli giunse, da parte del Senato Romano e dell’Università di Parigi, l’offerta dell’incoronazione poetica.
Accolto l’invito di Roma, dopo un esame da parte del Re Roberto di Napoli, l’8 aprile del 1341, giorno di Pasqua, cinse la corona di poeta in Campidoglio, che per atto di umiltà, depose sull’altare di San Pietro. L’onore tributato al Petrarca – che non ebbe Dante da Firenze per la Divina Commedia – fu dovuto soprattutto all’umanesimo del Petrarca e all’amore per la classicità di cui fu un assiduo ricercatore e studioso.
Al riguardo Anatole France scrive che il poeta è stato il primo di quegli uomini che “amarono le lettere morte d’un vivente amore e ritrovarono nella polvere antica la scintilla dell’eterna bellezza”.
Quanto agli ideali politici del Petrarca nel 1347 plaudì all’impresa di Cola di Rienzo nella speranza che potesse essere restaurata l’antica repubblica romana. Ma l’impresa fallì e nel maggio del 1348, tornato a Parma, apprese la notizia della morte di Laura.
- La casa di Petrarca ad Arquà
Nella canzone “Italia mia”, considerato il continuo contrasto tra l’Impero e la Chiesa del tempo, invocò la conquista di una pace che assicurasse un vivere civile e ordinato, quel “buon governo” che il Lorenzetti dipinse nella grande sala del palazzo comunale di Siena.
Dopo altri viaggi, il poeta se ne tornò, ospite di vari Signori di Italia, in Provenza nel suo amato rifugio di Valchiusa. Dal 1370 il poeta visse ininterrottamente ad Arquà sui colli Euganei (Padova) confortato dalla figlia naturale Francesca. Le sue giornate trascorrevano tra la lettura, la preghiera e le occupazioni campestri in serena tranquillità “lungi dai tumulti, dai rumori e dalle cure”.
Nel 1372, in occasione di una sua ambasceria per conto di Francesco Novello, Signore di Carrara, perorò, quale oratore, il perdono della Serenissima per il suo Signore che si era schierato contro Venezia. Come si legge, in una cronaca dell’epoca, forse a causa del suo precario stato di salute, durante l’orazione “la vose ie tremò un poco”. Tornato ad Arquà la sua salute deperì sempre di più e travagliato da febbri malariche, la notte del 19 luglio 1374, fu colto da sincope. Si narra che il poeta fu trovato nel suo piccolo studio con il capo reclinato sul bel codice di Virgilio. Dopo le solenni onoranze tributategli, alla presenza del Signore di Padova, fu sepolto nella piazzetta di Arquà in un arca di pietra rossa, meta secolare di continui pellegrinaggi.
La vita del Petrarca fu continuamente tormentata da un dissidio interiore dovuto al contrasto tra le sue passioni terrene e la sua condizione di religioso; era sempre combattuto tra la vita mondana fatta anche di passioni e la fede che egli aveva abbracciato nel momento in cui aveva vestito l’abito ecclesiastico e preso gli ordini minori che gli aprirono la strada agli uffici e alle prebende.
- La casa di Arquà - Interno
Tale dissidio lo porta ad alternare continui pentimenti ed invocazioni alla misericordia di Dio ed alla Vergine recitando anche i salmi penitenziali. Petrarca, in buona sostanza, non sa rinunciare all’amore della gloria, della donna e alla vita mondana, pure ammettendone il carattere passeggero e a volte peccaminoso e pentendosene amaramente. Peraltro la sua fede religiosa non sembra così radicata nel suo animo da procurargli un equilibrio spirituale.
Le sue inclinazioni mondane, le sue aspirazioni alla vita pienamente vissuta e goduta, in una parola la sua vera umanità, prevalgono pur fra continui dubbi e spasimi. Egli vede il meglio e s’appiglia al peggio come dice nella rima numero 264: “e veggio ‘l meglio et al peggior m’appiglio”, facendo propria una frase di Ovidio: “Video meliora proboque / deteriora sequor”.
- Laura incorona Petrarca poeta
La sua mancanza di volontà, che lui chiama accidia, lo tormenta di continuo procurandogli alla fine la “voluptas dolendi”. Contrariamente a Dante che credette fermamente nel volgare, tanto da scrivere in tale lingua la “Divina Commedia” e la “Vita Nova”, Petrarca, invece, si attendeva l’immortalità dal latino ed in particolare dall’opera “Africa” scritta in esametri latini e concepita come una specie di canto epico nazionale delle glorie italiane e romane impersonate da Scipione, il trionfatore di Annibale.
In latino, infatti, compose oltre all’ ”Africa”, varie opere poetiche, morali, erudite, polemiche, varie lettere e un diario (il “Secretum”).Oltre all’amore per i viaggi e per la vita mondana il poeta aggiungeva anche quello per la solitudine nella pace campestre della sua casa in Valchiusa, dove lontano dai rumori di Avignone e nel silenzio della valle, il suo spirito solitario e idillico trovava pieno appagamento nonché spunti ed alimento per la composizione delle sue “Rime Sparse” scritte in volgare, come anche i “Trionfi”.
Anziché dalle opere in latino, la gloria del Petrarca venne tutta proprio dalle “Rime” anche se egli le considerava “nugae, nugellae, rerum vulgarium, fragmenta”, cioè bazzecole e frammenti di poesia. Considerato il favore con il quale furono accolte dal pubblico tali liriche si lamentò di non averne composte di più e in miglior stile, tanto da scrivere:
"S’io avesse pensato che sì care
fossin le voci de’ sospir miei in rima,
fatte l’avrei dal sospirar mio prima
in numero più spesse, in stil più rare”.
- Laura e Petrarca, miniatura dal Canzoniere
Dal Codice Vaticano Latino n. 3196 (detto codice degli abbozzi) Petrarca dedicò particolare cura alla composizione delle “Rime” come risulta dai numerosi autografi contenenti: correzioni, limature, postille, date ed altro. L’opera definitiva porta il titolo “Francisci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta”, costituita dal manoscritto autografo “Vaticano Latino n.3195”, contenente 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.
Il “Canzoniere”, denominazione assunta in seguito dalle “Rime”, costituisce la storia intima di Petrarca fatta da un tumulto di sentimenti spesso contrastanti; il Petrarca ama e soffre, sia per la passione per Laura, sia per il suo continuo dissidio interiore dovuto alla lotta tra il bene e il male, tra le sue passioni terrene e i sentimenti di pentimento per il richiamo della fede. La nota dominante è una sistematica malinconia che alterna con pianti ed emozioni, immagini e fantasmi in cui l’animo del poeta soggiace tanto da dire:
“sì dolce è del mio amaro la radice”
- Laura
La figura di Laura assume nelle sue liriche aspetti seducenti quando la rappresenta nella sua sfolgorante bellezza alla maniera delle donne angelicate di Dante e dei poeti del dolce stil nuovo, oppure avvolta in un nimbo di indicibile purezza, ispirandosi alle Madonne e alle figure femminili ritratte dal Ghirlandaio e dal Botticelli.
In merito alle “Rime” il Carducci dice : “I più dolci e molli suoni della lingua italiana si temperano in un’armonia ineffabile che annuncia la quiete: la fiera terzina diviene tenera e cedevole come giacinto e asfodelo, per farsi letto alla dea del canzoniere che muore. La morte, il fantasma che aleggia nei canti del Medioevo riesce ingentilita e torna ad essere la greca Eutanasìa che scioglie, ristora, addormenta:
“Morte bella parea nel suo bel viso”
anche se in qualche rima la morte incute paura e sgomento anche al poeta:
“Veramente siam noi polvere ed ombre.
Cosa bella e mortal passa e non dura”.
Nell’animo del poeta si fa strada anche un certo sconforto:
“La mia favola breve è già compiuta
e fornito il mio tempo a mezzo degli anni!
Poca polvere son che nulla sente”.
La fede cristiana aveva dato a Petrarca il senso della vanità del mondo e la fugacità della bellezza tanto da riconoscere:
“che quando piace al mondo è breve sogno”.
Nonostante il passare degli anni e le tendenze mistiche che spesso prevalevano nel poeta, non riuscì mai a spegnere il suo disagio interiore. Dalla visione terrena di Laura e da quella dell’eternità passava alle implorazioni al Padre del cielo e alla Vergine affinché avessero pietà del suo stato, del suo male e lo assistessero nell’impari lotta. Nella Canzone alla Vergine è tale l’ardore e l’umanità della passione che certamente non fanno ritenere il suo travaglio sentito a fini letterari, secondo il costume trovadorico e stilnovista, bensì un vero stato angoscioso che travolge l’animo del poeta.
“Vergine, quante lagrime ho già sparte,
quante lusinghe e quanti prieghi indarno,
pur per mia pena e per mio grave danno!
Da poi ch’io nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa or quell’altra parte,
non è stata mia vita altro che affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m’hanno
tutta ingombrata l’alma”.
Nel ritiro di Valchiusa sperava “di spegnere nella solitudine e con lo studio la fiamma che l’andava consumando”, ma invano, come scrive in una lettera: “Povero sfortunato!”; il rimedio altro non valse che ad inasprire la piaga. “Le meditazioni mie si raccolsero tutte in colei sola (Laura) ch’io mi affannava di sfuggire”.
In un’altra lettera sempre da Valchiusa scrive: “Qui gli occhi miei, che troppo si affissarono nella beltà di Avignone (Laura), non possono veder altro che cieli, rupi ed acque. Qui sono in lotta con tutti i miei sensi. Quando penso a lei – e quand’è che non penso a lei? – mi guardo intorno alla mia solitudine e mi trovo gli occhi bagnati di lagrime. Sento che sono uno di que’ miseri la cui passione d’altro non si pasce che di memoria, né trova conforto se non nel pianto; ma che tuttavia desidera di pianger solo”.
Nelle “Rime” dice ancora:
“e io son un di quei che l’pianger giova”.
In un carme latino rivela ancora tutto il suo sgomento:
“Tal paura ho di ritrovarmi solo”.
Non solo l’espressione del suo dolore è sincera ma spesso rappresenta per il poeta una necessità uno sfogo del suo animo:
“E ogni mio studio in quel tempo era
pur di sfogare il doloroso core
In qualche modo non d’acquistar fama.
Pianger cercai, non già del pianto onor”.
- Dante, Boccaccio, Petrarca
- Galleria degli Uffizi, Firenze
Secondo il Quinet “l’originalità del Petrarca consiste nell’aver sentito per primo che ogni momento della nostra esistenza può contenere un poema, che non v’è ora della vita che non possa racchiudere una immortalità”. E il Bartoli ancora soggiunge che “codesta ora, codesto momento, il Petrarca li ha cantati colle parole più dolci che fossero sgorgate da labbro umano; egli ha convertito in arte ogni lagrima, ogni gioia, ogni desiderio del suo cuore ammalato ed ha con ciò aperta la via alla grande lirica di tutti i popoli d’Europa.
L’influenza di Petrarca fu, infatti, grande dentro e fuori d’Italia. Tra i poeti italiani il Foscolo, il Leopardi e il Carducci hanno più degli altri accolto nei loro versi l’intimità sua e la melodia serena e malinconica.
In particolare il Leopardi per alcune figure descritte nei “Grandi Idilli” si è ispirato al Petrarca quando ad esempio questi nel sonetto XVl descrive la scena: “Movesi il vecchierel canuto e bianco”, come pure nella Canzone “Ne’ la stagion che ‘l ciel inchina”, allorché parla della “stanca vecchierella” che torna dal paese e ancora quando fa riferimento a “l’avaro zappator l’arme riprende” o “quando vede il pastor calare i raggi” o vede “la sera i buoi tornare sciolti / da le campagne e da’ solcati colli”.
Detti poeti, pur essendo grandi, di rado hanno raggiunto l’accento profondo, la trasparenza, la musicalità e quell’aura contemplativa del Petrarca che si irradia dai suoi versi. Soprattutto non è stata superata la freschezza della lingua. Con la sua poesia il Petrarca, non solo trascende l’esperienza del dolce stil nuovo, ma le sue “Rime” costituiscono nel loro complesso il più alto e ricco documento di lirica psicologica d’ogni letteratura.
Secondo il Sapegno nel “Canzoniere” sono presenti: “l’uomo, la sua passione esclusiva, la sua intima lacerazione, la sua pena insanabile con un’aderenza senza paragone più tormentosa e dolente, più vera e più intensa”. Lo stesso autore dice che: “le “Rime sono una confessione, pur insistente e approfondita fino allo spasimo e perciò sempre avvolta in un velo di classica dignità”, nonché “un sommesso colloquio del poeta con la propria anima”.