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Mafia e politica tra fascismo e post-fascismo. Realtà siciliana e collegamenti internazionali, 1924-1948 (editore Piero Lacaita)

MAFIA DAL FASCISMO ALLA REPUBBLICA IN UN NUOVO SAGGIO


giovedì 1 novembre 2012 di Carlo Vallauri

Argomenti: Storia
Argomenti: Giustina Manica


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Soltanto di recente ho avuto occasione di leggere il bel libro – inviatomi cortesemente come in tante altre occasioni dal prolifico editore Piero Lacaita – di Giustina Manica Mafia e politica tra fascismo e post-fascismo. Realtà siciliana e collegamenti internazionali, 1924-1948, con prefazione di Sandro Rogari.

Lo studio, ampio e documentato, fornisce un quadro esauriente sulla mafia, “non invincibile” – come ebbe a dire Giovanni Falcone –, sin dalla fase caratterizzata dalla politica del prefetto Mori, incaricato da Mussolini di “recidere” quel bullone patologico di una “cosa nostra” inserita nel corpo della Sicilia, e che si sarebbe sin da allora rivelato quasi quale fenomeno fisiologico in quella società. E l’autrice spiega infatti molto bene, con accuratezza di dati, informazioni di prima mano rintracciate negli archivi degli organi statali, come le organizzazioni mafiose abbiano “retto” parte della vita sociale, inserendosi nelle strutture e nelle relazioni “normali” delle popolazioni nella loro quotidianità. E spiega, con altrettanta cura, come esse abbiano saputo sfruttare, di tempo in tempo, le loro caparbie capacità di azione che ha consentito di controllare interi settori dell’economia locale.

Per di più la studiosa ha poi confrontato l’esperienza isolana con quella americana di ben più ampia ripercussione. Scorre così di fronte agli occhi del lettore la crisi di una terra sottoposta alle vessazioni di minoranze ingorde che profittano delle gravi deficienze del sistema politico-sociale. Così avverrà in Sicilia, dove la dimensione delle aree coltivate e l’estensione del latifondo incolto favorirono forme degenerative di malavita organizzata, aggravatasi dopo che la prima guerra mondiale aveva costretto centinaia di migliaia di isolani a sacrificarsi per una “patria” nella quale ben pochi di essi (per ragioni storico-culturali) si riconoscevano.

Tutta la “fortuna” dei mafiosi nella loro storia è nella complessa forza di interporsi, grazie ai difetti costitutivi dalla società, nel pieno dei necessari rapporti tra manodopera e proprietà, con clientele povere, assoggettabili ai più prepotenti capi delle mafie, vecchie e nuove, sempre pronte infatti a ricostituirsi e rinnovarsi nell’intreccio tra le relazioni private e pubbliche, onde trarne il massimo profitto. Ecco perché da decennio in decennio le singole vittime di tale situazione hanno dovuto pagare amaramente subendo abusi, sopraffazioni, uccisioni. E Manica sottolinea come dal piccolo gregge rubato si passava a ben più ampi gravami imposti con la violenza palese e nascosta.

Così all’apparire del fascismo i ceti che temevano per i loro interessi furono pronti a incunearsi nelle stesse leve del potere locale scegliendo come sempre i potenti, al di là di ogni altra valutazione politica o morale. La prontezza di cogliere l’opportunità di avvantaggiarsi dell’appoggio dei nuovi padroni fascisti offre la spiegazione della continuità di un potere locale, mantenuto costante malgrado il variare dei colori politici, come si è visto prima nella democrazia libera poi nella incipiente dittatura.

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Giustina Manica

A differenza di altri scrittori sul delicato argomento, G. Manica riconosce a Mori il tentativo riuscito di porre un argine legale al malaffare, anche se, in verità, negli anni ’30 la continuità mafiosa ebbe modo di rafforzarsi, mentre proseguiva la serie di reati comuni, i delitti contro le persone e furti di animali, secondo antiche usanze tacitamente accettate. Alcuni dati statistici sembrano confortare i laudatori del metodo Mori anche se, al di là delle apparenze, con il trascorrere del tempo, si può dire che siano cambiati talvolta modi e persone, non certo la condizione di sudditanza dei “poveri” di fronte a quanti erano in grado di muoversi meglio negli intrighi del potere economico anche minimo, profittando soprattutto dell’interesse politico a non muovere i ruoli di potere reale nelle rispettive zone di territorio.

Questo studio, tra l’altro, conferma la tesi di uno dei maggiori studiosi della Sicilia moderna, il prof. Renda, circa il rilievo minore di quello attribuito inizialmente alla presenza della mafia, quale fattore determinante nel favorire gli eventi dell’estate 1943 in Sicilia. Piuttosto, al di là degli interessi immediati, si ponevano le basi per ulteriori, più larghe attività, che peseranno a lungo sulla vita dell’isola, a vantaggio di cosche ben insediate e protette, pronte in seguito a sfruttare nuove forme di speculazione: dalla proprietà terriera si passerà al coinvolgimento di più larghe schiere di profittatori delle costruzioni come dei micidiali traffici, sempre all’ombra degli americani, presenti nell’isola con le loro forze armate. Si erano in realtà create condizioni sociali e psicologiche per le quali la popolazione attendeva speranzosa la fine della guerra per cercare di sottrarsi alle incursioni aeree, alle maggiori calamità e miserie, ai rischi di quei tempi drammatici, quindi accolse con favore lo sbarco degli Alleati, pronti com’erano questi, a stabilire i nuovi sindaci, permettendo così alle diverse “mafie” di rafforzarsi.

E avendo G. Manica illustrato con precisione la continuità operativa della mafia “americana” utilizza poi tutti gli elementi forniti dai documenti per far rilevare la facilità con la quale il connubio di elementi perversi di varia provenienza e diversa collocazione abbia favorito ulteriori forme di sopraffazione, tra vessazioni e ingiustizie.

Un quadro altrettanto chiaro è nell’indicazione dei nuovi fronti davanti ai quali si troveranno le autorità anglo-americane, poi le ricostituite istituzioni nazionali. Vengono così chiaramente delineati da un lato le posizioni della “nuova” mafia, dall’altro quelle del banditismo spicciolo, frutto allora della confusione e del “vuoto” provocato dal passaggio militare mentre emergeva quale terzo protagonista (di breve durata ma di impatto inquietante per i mezzi di cui poté disporre) – il separatismo. Queste situazioni ingrovigliate sono analizzate con rigore logico e storico, distinguendosi questo lavoro da troppi “luoghi comuni” generalmente accettati, prescindendo da una valutazione documentata, come avviene invece in questo libro.

Altrettanto attenta la diagnosi sulla tormentata e triste vicenda dell’assalto a Portella della Ginestra contro i lavoratori. Emergevano ormai i nuovi schieramenti, con la presenza di organismi sindacali dei contadini in grado di far proprie le loro concrete esigenze, rivelando maggiore operatività difensiva contro il malaffare.

Il “banditismo politico” viene poi tratteggiato nei suoi aspetti esasperati, e spesso non compresi, come altrettanto valido è il richiamo allo sforzo compiuto in quegli anni dalle forze di polizia. Le bande, le cosche, i sotterfugi politici sono denunciati sulla base delle carte degli archivi pubblici con netta denuncia degli strumenti utilizzati per affermare il “diritto dei più forti”, al di là delle vicende personali e politiche. Un affresco quindi vivo e parlante per il periodo del secondo dopoguerra. Una lettura con richiami preziosi anche per chi oggi voglia riflettere su quello che è accaduto effettivamente, al di là degli schemi, nei rapporti tra Stato (sempre debole) e mafie, pronte a proseguire nella loro secolare capacità di sfruttare i vari livelli di potere di fatto. Da questa lunga e circostanziata esposizione – che va lodata per l’esattezza di notizie e riferimenti – viene fuori con dovizia un “memento” amaro ma autentico, senza nulla tralasciare delle responsabilità e delle perversità storicamente accettate. Suggeriamo pertanto la lettura dello studio, non privo di un suo fascino nella narrazione rapida quanto completa e convincente e che consente di comprendere anche il succedersi di eventi successivi, sui quali oggi torna l’attenzione preoccupata della politica, degli organi giudiziari e soprattutto dei comuni cittadini.

 

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