E ultimamente siamo rimasti colpiti da due libri in particolare che descrivono le sofferenze delle donne afghane per il ritorno dei talebani, sofferenze di cui poco si parla ormai nei Tg e sui giornali: “Mille volte gioia”, di Siba Shakib (Ed Pienogiorno) “Le bambine non esistono”, di Ukmina Manoori e Stéphanie Lebrun (Ed. Pienogiorno)
Il primo colpisce per un’immagine con il volto nascosto da petali colorati, un’immagine ampiamente diffusa sui social per un appello lanciato da Siba Shakib che nel suo libro descrive le sofferenze delle donne afghane dopo la fuga dell’Occidente e della comunità internazionale dal loro Paese ripiombato nelle mani dei talebani. E il libro viene così presentato: “Shadi sa molte cose, troppe per una bambina di tre anni. Sa che nella sua città, Kabul, adesso comandano uomini crudeli, talebani si chiamano. Sa che suo padre è in pericolo perché li aveva combattuti. Sa che per lei e per le donne dell’Afghanistan «la libertà è acqua passata», come le spiega amaramente la mamma il giorno in cui viene al mondo Jahan, sua sorella. Un anno dopo, nascosta, assiste all’irruzione di quegli uomini nella loro casa. Pochi istanti e un cofanetto e la sua amata Jahan sono le uniche cose che le restano.
Insieme alla raccomandazione di sua madre: «Promettimi che conserverai sempre la gioia che hai nel cuore». Si chiama così, Shadi: Gioia, quello è il significato del suo nome in lingua dari. Negli anni che verranno cercherà in ogni modo di rispettare quella promessa, a dispetto delle terribili sferzate del destino, della crudeltà degli uomini e di un Paese che sembra temere la luce delle donne più di ogni cosa e fa di tutto per oscurarla. La vita di Shadi si intreccia per tre decenni a quella di altre donne e alle drammatiche vicende di un Afghanistan eternamente in guerra: l’oscurantismo fanatico dei talebani, gli sprazzi di libertà degli anni della Repubblica, le laceranti contraddizioni dell’Occidente, il ritorno al potere degli uomini barbuti e del loro regime di terrore. E una grandiosa storia di resilienza, di lotta, di speranze, di fame di libertà e giustizia che non si estingue mai, di una, due, migliaia di Shadi che sanno intrecciare tra loro legami profondi e indissolubili”.
- Siba Shakib
Come ha raccontato la stessa autrice per le donne non esistono diritti umani e civili: possono essere percosse, frustate, molestate, violentate, uccise ovunque, anche nelle loro case; per loro c’è divieto di studiare, divieto di uscire di casa, se non accompagnate da un parente stretto (mahram), divieto di apparire sui balconi delle loro case, di incontrarsi tra loro, di ridere e quant’altro.“Sono questi i frutti velenosi del nuovo Emirato Islamico, il regime dei talebani 2.0 al quale le donne afghane sono state colpevolmente abbandonate- ha affermato Siba-Sono più numerosi e più forti dei talebani di vent’anni prima, hanno tecnologia avanzata, armi, equipaggiamenti, persino uniformi, e d’altro lato non hanno imparato nulla: barbari senza cultura, se non quella della prevaricazione e della sopraffazione, della violenza e del terrore, dello stupro delle anime e dei corpi. Barbari che a me, iraniana, rammentano altri barbari: i mullah di Teheran; comuni radici, comune incultura, comuni caratteristiche criminali, e comune logica di repressione del femminile, di quella forza naturale che si contrappone all’ottusità della loro violenza e per questo fa loro paura.Ho scritto il mio nuovo romanzo, "Mille volte Gioia”, proprio per questo: perché sento la responsabilità di dare voce a tutte le ragazze e le donne di Kabul e dell’Afghanistan.
Le vicende della protagonista del libro, Shadi, un nome che in lingua dari significa appunto Gioia, accompagnano l’esistenza di una bambina che diventa donna nei tre decenni che conducono dalla prima alla seconda dominazione talebana e restituiscono le storie che ho sentito e visto con i miei occhi durante tutto il tempo che ho trascorso in quel Paese(...) Ho scelto per la copertina del mio libro l’immagine di un fiore che si sostituisce al burqa sul volto di una donna, perché quell’immagine sa incarnare la forza resiliente della loro speranza. Se il 7 maggio dello scorso anno un barbaro editto del regime talebano ha reintrodotto per tutte le donne l’obbligo assoluto di indossare il burqa in pubblico, riportando indietro di vent’anni le lancette della storia, nel maggio di quest’anno quell’immagine può servire a ricordare a tutti i loro sforzi, i loro diritti fondamentali negati, la loro lotta che non deve, non può conoscere resa, perché la loro sconfitta sarebbe anche la nostra, in qualunque luogo viviamo. È per me un’immagine di sorellanza. Se volete, donne e uomini, diffondetela sui vostri social media, oppure, ancor meglio, postate una vostra fotografia con un fiore davanti al volto, e scrivete: «Per le mie sorelle afghane». Combattiamo il silenzio della brutale ignoranza che le ha imprigionate in un gigantesco carcere a cielo aperto con il rumore dell’indignazione, della solidarietà, della mobilitazione. Non lasciamole sole. Raccogliamo il grido di quei fiori colorati e moltiplichiamolo. Perché come dice un proverbio: una gioia condivisa è una gioia raddoppiata, un dolore condiviso è un dolore dimezzato”.(https://espresso.repubblica.it/attu...
Scrittrice, regista, documentarista, Siba Shakib è nata e cresciuta a Teheran, in Iran, e ha vissuto a lungo in Afghanistan. Attivista per i diritti delle donne, il suo film “A Flower for the Women in Kabul - 50 years UN” è legato alla campagna “Un fiore per le donne di Kabul” lanciata da Emma Bonino nel 1998, ha vinto il German Human Rights Film Prize. Le sue opere sono bestseller tradotti in 27 lingue e pubblicati in più di 100 Paesi. Per “Afghanistan, dove Dio viene solo per piangere” (Piemme) Shakib ha vinto il prestigioso PEN Prize.
Nel secondo libro citato “Le bambine non esistono”, di Ukmina Manoori e Stéphanie Lebrun (Ed. Pienogiorno) viene raccontata la storia vera di una delle autrici, Ukmina, nata in Afghanistanai tempi dei Talebani e cresciuta come una bacha posh, cioè bambina vestita da maschio. Il libro è stato scritto in collaborazione con Stéphanie Lebrun, giornalista, documentarista e cofondatrice delle agenzie di stampa Babel Press e Babel Doc, insignita dei più prestigiosi riconoscimenti, tra cui un Emmy Award. Il libro viene così descritto: “Nonostante sia cresciuta sui monti afgani al confine con il Pakistan, in una zona ancora legata a tradizioni secolari, Ukmina sin da piccola va in bicicletta, gioca a pallone, si sposta da sola per le commissioni, parla da pari con gli uomini del suo villaggio. Il motivo per cui può farlo è perché Ukmina non esiste. È un fantasma. Undicesima dopo sette femmine e tre maschi morti in fasce, quando ha superato il mese di vita, suo padre ha capito che ce l’avrebbe fatta e ha sentenziato: «Tu sarai un maschio, figlia mia». È un’usanza diffusa in Afghanistan, tollerata anche dai mullah: una famiglia senza figli maschi, può crescere una bambina come fosse un bambino. Per salvare l’onore, e per scongiurare la malasorte sui figli futuri. Malasorte che consiste nell’avere figlie femmine. Vengono chiamate bacha posh, “bambine vestite da maschio”, e sono tantissime. In virtù di un semplice cambio di abiti, Ukmina ha avuto tutta la libertà riservata agli uomini. E ha compreso fino in fondo quale prigionia sia nascere donna nel suo Paese. Così, al raggiungimento della pubertà, quando l’usanza impone alle bacha posh di mettere il velo, sposarsi e fare figli, Ukmina si ribella. Come potrebbe, di punto in bianco, seppellirsi tra quattro mura e ricevere ordini da un marito? Sa di dover pagare con pezzi della propria anima ogni giorno di libertà, ma sa anche che ne vale la pena. Sa che solo rimanendo uomo, libero e con diritto di parola, può aiutare le donne affinché non debbano più nascondersi per esistere”.
- Ukmina Manoori
Nel raccontare la sua storia, Ukmina evidenzia che a partire dall’età di 10 anni, maschi e femmine vivono separati: alle bambine viene proibito di unirmi nei giochi ai ragazzi, costretti a denunciarle per non essere disonorati. A tale età le ragazze si velano, rinunciando alla libertà: abbandonano i giochi all’aperto per richiudersi tra le mura domestiche dove imparano a cucire, si occupano dei più piccoli e aiutano la madre; a dodici anni indossano il burqa e non escono se non accompagnate da un uomo della famiglia. Dalle pagine del libro emerge la condizione femminile s otto i Talebani, nonché il ritratto di Ukmina, donna forte, combattiva che si ribella contro un contesto sociale in cui, come ella stessa dice, le ragazze fanno parte del paesaggio e non esiste un nome o un’etichetta particolare per indicarle. Significativa la sua decisione di diventare una donna libera: “Ho assaporato la libertà degli uomini, ho visto le ragazze della mia età scomparire dalle strade e diventare invisibili. Per me non è più possibile tornare indietro. È troppo tardi”. Il libro ha avuto molto successo a livello internazionale ed è stato considerato un bestseller dopo pochi mesi dalla pubblicazione. Ukmina oggi si batte per i diritti delle donne ed ha portato la sua lotta fino all’ONU.
Giovanna D’Arbitrio