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Il golpe di via Fani. Protezioni occulte e connivenze internazionali dietro il delitto Moro (Sperling & Kupfer, Milano, 2007)

DENTRO IL CASO MORO

Il nuovo libro di Giuseppe De Lutiis, noto esperto di servizi segreti ed eversivi, contiene tratti essenziali delle ricerche compiute sull’argomento
giovedì 18 settembre 2008 di Carlo Vallauri

Argomenti: Storia
Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Giuseppe De Lutiis


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Sin dal titolo Il golpe di via Fani. Protezioni occulte e connivenze internazionali dietro il delitto Moro il nuovo libro di Giuseppe De Lutiis, noto esperto di servizi segreti ed eversivi, contiene tratti essenziali delle ricerche compiute sull’argomento. Perché in effetti il risultato vero dell’operazione del 16 marzo 1978 è quello già conseguito con la strage ed il rapimento, la cui conclusione non ne è che la logica conseguenza.

Una premessa soggettiva: per quanti atti di inchieste giudiziarie e parlamentari e tomi libreschi si possano continuare a leggere non riteniamo di modificare l’opinione che, sulla base delle conoscenze e delle esperienze personali (quale studioso non lontano dagli ambienti nei quali si visse drammaticamente quell’evenienza) abbiamo avuto modo di esprimere sulla questione. “L’ intelligenza con la quale Moro guardava allo sviluppo della politica italiana venne a scontrarsi con l’esigenza che fuori d’Italia si avvertiva affinché quella evoluzione non giungesse al suo compimento democratico”. Ecco allora che la “necessità” imponeva convergenza di connessioni tra organi di spionaggio di diversi paesi appartenenti ai due contrastanti schieramenti mondiali e l’attività di gruppi terroristi “interni”, e quindi “azioni decise” con un “intreccio riguardante diversi Stati operanti nello scacchiere euro-mediterraneo”. (Caratteri, simbologia e pratica del terrorismo in Alle radici della politica italiana, 1997, Gangemi, Roma). Un filone interpretativo emergente sin dai primi studi di S. Flamigni sulla “tela di ragno” nonché ne Il caso Aldo Moro, pubblicato ad Harward da R. Drake, docente dell’Università del Montana e tradotto per l’editore Marco Tropea nel ’96, le cui considerazioni in sostanza il recente libro qui recensito in un certo senso sembra confermare, pur con una accentuazione documentaria sulla quale meditare.

Torniamo alla faticosa opera di De Lutiis: la sua ricerca riconduce appunto a quella “strategia” del “ragno”, le cui branche ed articolazioni si sono formate attraverso infiltrazioni, singolarmente rispondenti ad una dinamica apparentemente episodica, messa in atto con coerenza e consapevolezza degli atti via via compiuti. Creato il “meccanismo”, quella serie di condizionamenti e compenetrazioni hanno condotto ad una “esplosione” che difficilmente non poteva non concludersi con l’effetto desiderato.

L’autore ha l’indubbio merito di aver riferito sulle manovre precedenti al fatto clamoroso, risistemandone i differenti filoni, con una più precisa individuazione del fronte “occidentale” piuttosto che quello cecoslovacco. Certo la somma di indizi qui raccolti è un insieme agghiacciante (ormai non più “inquietante” perché il delitto è stato commesso) di omissioni, leggerezze, travisamenti, errori anche, che aggiungendosi ad atteggiamenti dipendenti dalla volontà tenace di distruggere il velo che proteggeva la democrazia italiana, hanno reso possibile il misfatto.

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On. Aldo Moro

Ci riferiamo in particolare non ai comitati di Sogno, troppo palesi nelle loro intenzionali finalità anticomuniste, quanto ai misteriosi Senzani (sul quale è disponibile molto più materiale di quello fornito qui da De Lutiis) e Simioni sino agli ufficiali ed agenti dei servizi che si lasciano sfuggire (spesso volutamente) possibilità di interventi in grado, sin dal ’76, di aprire varchi di conoscenze dirette circa quel che si muoveva nell’emisfero brigatista.

Molto esatte appaiono le affermazioni specifiche emergenti sulle “piste nere” come pure la cronologica precisione nel rilevare i movimenti di Moretti (il quale riesce sempre a “salvarsi”), nonché i collegamenti con le Rose dei venti a livello europeo. A proposito di Stay behind resta sempre pleonastica la ripetuta denuncia di operazioni irregolari quando la stessa integrazione nella Nato è avvenuta in forme ben distanti dalle procedure costituzionali, e pertanto meravigliarsi degli effetti successivi significa parlare come Alice nel paese delle meraviglie. Gli uomini che operavano in quelle strutture rappresentavano pur sempre lo Stato, l’unico Stato riconosciuto ed attivo in Italia. Non accenniamo ai numerosi generali citati nel libro perché solo i loro nomi suscitano sgomento nel misurare in quali mani era affidata la sicurezza degli italiani. Un insieme di azioni che ricordano, per approssimazione e confusione, i fatti avvenuti nelle forze armate e nelle amministrazioni nel ventennio fascista.

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Roma - Via Fani
16 marzo 1978

I particolari poi dei “55 giorni” tra la mancanza assoluta di controlli veri non quelli stradali (e De Lutiis fa bene a riportare alcune tra le evidenze più gravi) e l’evanescente pista di via Gradoli, con le complicazioni collegate ai contatti con la criminalità comune, costituiscono la più avvilente pagina della nostra repubblica. La presenza delle medesime persone fisiche sia nell’ambito dell’avventurismo brigatista che all’interno degli apparati preposti alla tutela delle istituzioni, specificatamente e alla ricerca del rapito, la paradossale vicenda della Commissione del Viminale che provvedeva ad eliminare ogni sia pur minima parvenza di azione mirata alla liberazione del prigioniero, sono segni mostruosi nella loro apparente “innocenza”. Tra l’altro la scomposizione degli organismi che erano frutto dell’opera positiva di Dalla Chiesa e di Santillo, il ritiro del prefetto Napoletano dalla Segreteria del Cesis, sostituito nel pieno della tragedia (fine aprile ’78), dal prefetto che risulterà poi, come tanti altri allora nei punti chiave, componente della P2. I casi di Cogliandro e Ruvolo, le rivelazioni di Delfino, le scansioni delle tante famiglie, massoniche, nobili, o sedicenti proletarie, le “verità” di Pecorelli, il ruolo del vice direttore del Sisde che uscirà purificato dalla vicenda, la estrema puerilità dell’operazione Lago della duchessa, i volantini delle B.R. diffuse ad opera di dipendenti pubblici incaricati invece di ben più severe funzioni ufficiali, la scomparsa di documenti, le stranezze della cattura di Curcio e Franceschini, i rapporti con l’OLP, il caso Sokolov, sono tutti eventi che De Lutiis ha saputo collocare nei loro rispettivi contesti senza esasperazioni e senza indulgere in troppe fantasiose interpretazioni, sino alla mancata collaborazione con la polizia degli altri paesi europei: ogni pagina è di per sé un colpo alla credibilità delle istituzioni. I quattro files o livelli individuati dal generale Delfino restano quali punti di riferimento forse più attendibili di tanti altri. Il lettore non potrà che apprezzare, come noi, il contenuto di questo libro. Mi chiedo tuttavia come mai non venga presa come ipotesi interpretativa quella di una operazione immaginata ed eseguita da un ristretto numero di fanatici comunisti (partito da cui quasi tutti i brigatisti provenivano), del tutto sprovveduti di capacità conoscitive sulla realtà economica internazionale e di come si muovono veramente ed agiscono i potentati e quindi, trovatisi allo sbaraglio, quando si accorgono di essere in una impresa troppo grande per loro, e così costretti a subire la volontà di chi controllava il “comitato esecutivo”, cioè un soggetto esterno in grado di orientare e controllare l’intera operazione. Molti singoli eventi storici, come insegnava Hayek, sono frutti inintenzionali di chi ne è protagonista. Il fatto veramente grave è il silenzio su quegli eventi, le coperture, la scomparsa di documenti, le deviazioni istituzionali, i cui responsabili non sono stati mai chiamati veramente a risponderne.

Sia consentito, infine, accennare ad un fatto curioso: all’inizio degli anni ’80 l’autore di questa nota, dovendo partecipare a una serie di riunioni in sede Unesco, chiese ad uno studente francese che studiava a Roma l’indirizzo di una scuola da frequentare a Parigi per breve tempo, con lezioni intensive, ed egli mi fornì il nome della Hyperion, dove, al mio arrivo – non ero più un giovane studente, come gli altri – fui sottoposto ad una (per me allora incomprensibile) osservazione minuziosa e ad una sottile vigilanza che – oltre alle quotidiane lezioni – mi consentì tuttavia per un mese di partecipare a riunioni conviviali dei docenti (al riguardo potrei scriverne forse una commedia). Non ho più avuto notizie del mio conoscente parigino e quando è divenuta celebre l’Hyperion non ho avuto occasione di chiedergli perché avesse scelto proprio quella scuola.

 

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