Europa e Asia: basterebbe ricordare i viaggi di Marco Polo, il successo dei reportage di fine Ottocento, traduttori-esploratori come Giuseppe Tucci o le tante società teosofiche alla moda per sottolineare quanto profondo è stato ed è il legame, a volte serio, a volte meno, tra l’estremo Oriente e la nostra società.
L’effetto di questo scambio culturale antico è fonte di arricchimento ma anche di cambiamenti paradigmatici dal punto divista filosofico non sempre innocui. La collettività contemporanea, generalmente, in tutti i suoi strati sociali, trova per esempio molto trendy liquidare la cultura occidentale a favore della controparte asiatica. Una delle convinzioni più diffuse oggi è spesso quella che la verità non sia ottenibile con una indagine in terza persona, secondo la metodologia occidentale, ma attraverso una “medesimalità” con l’oggetto esplorato.
Facendo ingiustizia alla sapienza orientale, e semplificando la questione, possiamo dire che il Conoscente, fondendosi con il conosciuto, riceverebbe una intuizione, una illuminazione non riproducibile o comunicabile, ma illuminante e assoluta. Il Koan rappresenterebbe la manifestazione di quel cortocircuito semantico in grado di riferire l’irriferibile in termini logico-dimostrativi. La domanda, con questa impostazione, sorge spontanea: dove è stabilito che questo approccio riveli qualcosa in più? Perché automaticamente l’immedesimazione con l’oggetto, per esempio grazie alla meditazione, la ricerca interiore della coscienza attraverso stati estatici, debba sicuramente produrre una verità superiore alla prima?
Vittime della morte di dio e di una crisi delle certezze sempre più invadente (tanto da dimenticarci della nostra tradizione mistico-sapienziale), l’uomo contemporaneo sembra abbandonare la propria cultura per adottarne un’altra, al fine di soddisfare quella esigenza disattesa di verità tanto agognata. Il dualismo occidentale, insomma, sarebbe meno utile alla società in cerca di sapere? È destinato all’archiviazione? È davvero così?
A ristabilire una lettura più equa e oggettiva dei fatti e della storia è il libro di Simona Chiodo, Apologia del dualismo. Indagine sul pensiero occidentale. Questo breve saggio, nonostante sia per l’appunto poco voluminoso, impressiona per la forza e l’ampiezza dei contenuti fin dalle prime pagine.
La docente, Professoressa a Milano e autrice di libri altrettanto affascinanti (Io non cerco, trovo; Estetica dell’architettura) accenna brevemente all’inizio del capitolo quale sia la differenza tra metodo occidentale e metodo orientale, tra un paradigma che parte da una teoria e investiga la realtà, e un altro in cui prevale la processualità adattativa – sapendo che la semplificazione è solo per necessità d’esposizione.
Va ben oltre invece nei successivi tre capitoli, quando dimostra chiaramente la grandezza di un metodo – e diciamolo senza rischiare di passare per sciovinisti o simili – di una cultura capace di offrire enormi ed esclusive possibilità conoscitive all’essere umano. Il dualismo spesso bistrattato appare essere la vera “invenzione” dell’Occidente, della cultura greca classica, ed è lo strumento grazie al quale emerge il theorein, sia filosofico che scientifico.
Lavoro brillante e intenso, si è sottolineato, il cui merito principale è mostrare chiaramente cosa comporta l’idea di un limite, sia gnoseologico che ontologico, le possibilità che offre, e soprattutto le dinamiche in grado di sviluppare dal punto di vista etico. Se infatti lo strumento conoscitivo è in sé unico e fenomenale, nondimeno offre anche la possibilità di riflessioni importantissime per quanto riguarda il dilemma morale che l’uomo si trova ad affrontare ogni volta debba fare una scelta. Si tratti di Oreste o Amleto, è chiaro quanto teoria e azione siano la storia di ognuno di noi. Quando la teoria pretende di saturare la realtà, ecco nascere il sopruso.
Sia esso una forma di totalitarismo o di anarchismo, “le dinamiche genetiche sia del totalitarismo che dell’anarchismo partono da qui: dalla soppressione della nozione di limite – dalla soppressione della credenza secondo la quale il particolare e l’universale non sono due contenuti assimilabili, e relazionabili da una sintesi, ma sono il primo un contenuto e il secondo un suo limite, e un contenuto e il suo limite sono inassimilabili, e relazionabili da un’antitesi”.
- L’Autrice
Attraversando Hegel, confrontandosi con Durkheim e il senso del sacro, dialogando con Platone, Hume e Cartesio, S. Chiodo offre al letture un libro di una forza persuasiva vivacissima, che diventa un vero e proprio manifesto etico in favore della miglior tradizione occidentale, la quale non va gettata via per le devianze o le storture prodotte dagli uomini o tantomeno per alcune mode passeggere.