L’Umbria, a distanza di due anni dal terribile sisma che l’ha colpita distruggendo tra gli altri comuni Norcia, la patria di San Benedetto, sembra rinascere alla vita con una serie di mostre incentrate sulla bellezza dell’arte, soprattutto di quell’arte sacra che contraddistingue l’età di Mezzo, il Medioevo. Mentre a Spoleto, Trevi, Montefalco e Scheggino si tiene la mostra “Capolavori del Trecento. Il cantiere di Giotto, Spoleto e l’Appennino”, la più settentrionale città di Gubbio ospita la mostra “Gubbio al tempo di Giotto. Tesori d’arte nella terra di Oderisi” (fino al 4 novembre 2018).
È indubbio che Gubbio, città mistica legata a Sant’Ubaldo, ma anche a San Francesco d’Assisi (che vi rabbonì il lupo), conserva intatto il fascino dei secoli lontani con le chiese e i palazzi in pietra che si stagliano contro il verde dell’Appennino umbro. Un fascino che in questi ultimi anni si contrappone a quello della più mondana Spoleto, dove ha sede il Festival dei due mondi, grazie al Festival del Medioevo, giunto alla IV edizione, che, più che una kermesse di spettacoli, vuol essere la più importante rassegna internazionale di divulgazione storica, e questa mostra s’inquadra perfettamente con il desiderio di rivalutare i secoli bui del Medioevo, che in realtà non erano così bui, visto che hanno dato origine a invenzioni che hanno cambiato il mondo. Basti pensare alla stampa a caratteri mobili, alla bussola, agli orologi meccanici, alle prime armi da fuoco e a tante scoperte della medicina e dell’astronomia. Ed è al Medioevo che dobbiamo la nascita di quei santi che hanno cambiato il modo di rapportarsi a Dio.
Gubbio era già importante tra i popoli italici, come dimostrato dalle Tavole eugubine, la più interessante testimonianza della civiltà umbra, perché ci tramanda un quadro dettagliato di una città-stato italica del III-I secolo a.C., con influenze dapprima etrusche e poi romane. Tra le prime città ad allearsi con Roma, Eugubium divenne un importante municipium, ma alla caduta dell’impero romano cadde sotto il dominio degli Eruli e dei Goti e venne distrutta durante la guerra gotica. Riedificata dai Bizantini sotto il monte Ingino, dopo il travagliato periodo altomedievale, appartenne alla Chiesa, finché verso il XII secolo divenne una fiorente città-stato in grado di autogovernarsi e di ampliare il suo dominio al territorio circostante. Il periodo più glorioso della repubblica eugubina fu il periodo tra il Duecento e il Trecento, quando si costruirono i mirabili edifici pubblici che ancora ammiriamo. La città doveva raggiungere all’epoca almeno 30000 abitanti e ospitava insigni artisti, filosofi, giuristi.
Il nome di artista più famoso è l’alluminatore Oderisi da Gubbio, ben noto per un passo della Divina Commedia. Sappiamo che Oderisi era amico di Giotto ed era noto per la sua superbia, ma in virtù del suo pentimento Dante lo mette nel Purgatorio (XI canto), facendogli riconoscere la superiorità di Franco Bolognese nell’arte della miniatura, ma soprattutto facendogli esprimere alcune considerazioni sulla vanità della fama umana e sulla brevità della gloria terrena. I due celebri esempi di Cimabue, superato da Giotto, e dei due Guido (Cavalcanti e Guinizelli), che devono cedere il passo allo stesso Dante, sono l’espressione concreta di questo concetto:
Credette Cimabue nella pintura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura: / così ha tolto l’uno all’altro Guido / la gloria della lingua; e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
L’inizio di un’età moderna, di un cambiamento che si manifesta proprio con la poesia di Dante e l’arte di Giotto è il tema della mostra che celebra la città di Gubbio, attraverso splendide pitture su tavola, sculture, miniature, oreficerie e documenti dell’epoca di Giotto. L’esposizione, a cura di Giordana Benazzi, Elvio Lunghi ed Enrica Neri Lusanna, è dislocata in tre sedi diverse, per l’inamovibilità di alcune opere, e allo stesso tempo perché così vengono valorizzati tre luoghi ricchi di storia e bellezza: il Palazzo dei Consoli che sorge su una piazza pensile che lo fa somigliare a quelle città che i santi portano in cielo nei polittici degli altari; il Museo Diocesano che sorge accanto alla chiesa cattedrale e infine il Palazzo Ducale, che nacque come sede del Comune e finì per essere la residenza di Federico da Montefeltro, signore di Urbino e splendido mecenate del Rinascimento.
Si tratta di un’ampia mostra, rigorosa dal punto di vista scientifico, che permette di ricostruire l’immagine di una città non grandissima, ma di rilievo politico e culturale nel panorama italiano a cavallo tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento. Per l’occasione sono stati recuperati e restaurati dipinti nascosti dalla polvere dei secoli, riconsegnando a Gubbio opere disperse nel corso della storia e riunendo quadri degli stessi pittori eugubini destinati ad altre città dell’Umbria, anche attraverso importanti prestiti dall’estero.
Per quanto riguarda Oderisi da Gubbio, resta purtroppo problematica l’identificazione delle sue opere, ovvero di quei codici eugubini o bolognesi (perché a Bologna operò di certo, e forse anche a Roma, prima della sua morte, avvenuta probabilmente nel 1299) che avrebbe miniato, mentre la mostra getta luce sul padre di Oderisi, Guido di Pietro, che viene identificato nel Maestro dei Crocifissi francescani, autore tra le altre cose di affreschi nel Duomo di Gubbio e ad Assisi, ed esponente della cosiddetta “maniera greca”, che ha tra i suoi protagonisti Giunta Pisano e Cimabue.
Un’altra personalità artistica su cui la mostra indaga è il Maestro espressionista di Santa Chiara, identificato con Palmerino di Guido, che nel 1309 collaborò ad Assisi con Giotto (con lui dipinse le due cappelle della Maddalena e di San Nicola nella basilica inferiore di San Francesco), prima di tornare a Gubbio, dove affrescò la chiesa dei Frati minori e altri edifici. Altri pittori non certo di secondo piano sono Guiduccio Palmerucci, autore di notevoli polittici, e il Maestro di Figline, che dipinse le vetrate per la basilica di San Francesco ad Assisi e il grande Crocifisso nella Chiesa di Santa Croce a Firenze, e che lasciò a Gubbio, nella Chiesa di San Francesco, uno stupefacente polittico.
Ampiamente presente in mostra è Mello da Gubbio (attivo tra il secondo e il terzo quarto del XIV secolo), autore tra le altre cose della Pala di Agnano, raffigurante una Madonna col Bambino tra angeli, sotto i cui piedi scrisse il suo nome (Opus Melli de Eugubio), uno dei rari esempi di firma in quell’epoca. La Madonna, raffigurata in trono entro un’amigdala di ispirazione senese, ha il volto pieno e giulivo che ricorda le Madonne di Ambrogio Lorenzetti. Il Bambino ha in mano un ramo di fico con due frutti, a simboleggiare il ruolo di novella Eva della Madre.
Tra i lavori esposti figurano anche una Madonna di Ambrogio Lorenzetti e un trittico pressoché inedito di Pietro Lorenzetti, fratello maggiore di Ambrogio. Di grande importanza simbolica sono la cassa di Sant’Ubaldo (III decennio del XIV secolo), trasferita per l’occasione dalla Basilica del Santo al Palazzo dei Consoli, e il telo funebre dello stesso santo, in canapa e seta, con motivi decorativi a leoni e pappagalli affrontati, che si ritrovano ancora nei tessuti tradizionali di Gubbio.
La mostra, che prevede un biglietto unico, è promossa dal Comune di Gubbio, dal Polo Museale dell’Umbria, dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, dalla Regione Umbria e dalla Chiesa Eugubina. Il vescovo Luciano Paolucci Bedini nel corso della presentazione ha espresso la massima soddisfazione per “un’operazione che ci vede in prima linea insieme agli altri promotori. Mi compiaccio che l’arte sacra sia preponderante, ma in realtà il linguaggio è universale e parla a tutta l’umanità”.
Non possiamo che concordare con questo giudizio, perché convinti che l’arte sacra può sicuramente aiutare tutti a scoprire nella bellezza il linguaggio divino e che “la bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione“, come si legge nel Messaggio dei Padri Conciliari agli artisti a chiusura del Concilio Vaticano II.