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Identità e violenza (Laterza, 2006)

Identità e violenza di Amantya Sen

QUANDO L’IDENTITA’ PUO’ FAVORIRE LA SEPARATEZZA ANZICHE’ IL MULTICULTURALISMO
lunedì 19 febbraio 2007 di Carlo Vallauri

Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Amantya Sen


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Identità e violenza di Amantya Sen (Laterza, 2006) riconferma la capacità dello studioso di enucleare, nel marasma delle inchieste e dei luoghi comuni sui fenomeni della violenza, i punti fondamentali dei rischi verso i quali corrono le nostre società, nell’impatto tra una vita sempre più meccanizzata e la molteplicità dei gruppi etnici e sociali che concorrono a formare un mondo plurale. Ciascuna identità tende progressivamente a riaffermarsi in diretta contrapposizione con le altre. In effetti egli sottolinea come l’appartenenza ad una singola comunità spinga a identificarsi sempre più con essa sino al limite di perdere il senso della appartenenza ad una più vasta comunità. Inoltre - osserva - si finisce per spiegare gli eventi di un paese esclusivamente sulla base di alcuni caratteri che in quel contesto sembrano dominanti, mentre proprio perché la società contemporanea è intrinsecamente plurale è un errore confondere tali aspetti di rilievo come essenziali e specifici di una sola civiltà.

La democrazia si è salvaguardata nell’esperienza occidentale dalla Grecia antica secondo criteri che oggi si pretende costituiscano una “esclusività”: eppure Mandela ha tenuto a ricordare che le procedure di svolgimento delle riunioni locali in Africa offrivano l’esempio del dialogo, a prescindere dalle classificazioni occidentali. In particolare l’A. - che altrove ha delineato i precedenti assembleari indiani - si sofferma sulle affiliazioni religiose nell’esperienza islamica come nella convivenza storicamente verificatasi tra arabi ed ebrei nel corso dei secoli.

Il caso del Pakistan rivela come sia possibile avere contributi di attività umanitaria anche da fonti ritenute spesso preliminarmente escluse da ogni approccio utile in materia. E Sen sostiene che la guerra al terrore guidata dagli americani è stata talmente rivolta a tener dietro alle iniziative diplomatico-militari da trascurare il ruolo della società civile. Si può combattere il “terrorismo” senza cercare di comprendere i fattori identitari dai quali quel fenomeno viene? L’A. ritiene un errore far discendere dal presupposto di una unica identità religiosa il dilagare della violenza diffusa. Le società musulmana hanno una loro ricchezza non riconducibile alle spinte provenienti dai reclutatori dei gruppi terroristi. Pertanto Sen richiama l’attenzione sulle cause della “resistenza alla occidentalizzazione” del mondo. La mentalità del colonizzato respinge la mentalità “fondamentalista” della cultura occidentale. Proprio la classificazione per “civiltà” contribuisce a sviare dai problemi reali per ridurre problematiche complesse a puri schemi. Naturalmente la globalizzazione, nel facilitare i rapporti tra i popoli, ha accentuato l’emergere delle differenze e quindi, in primo luogo, delle diseguaglianze. Ed è proprio dalla povertà che viene il senso di ingiustizia: a ciò si aggiunge che il multiculturalismo crea le premesse per il rispetto e lo sviluppo delle libertà, ma in senso contrario agiscono le preoccupazioni delle identità che si sentono minacciate. E viene citato il caso dell’Iraq, vista come una somma di comunità concepite solo nelle qualità di sciiti, sunniti o curdi, trascurando gli aspetti specifici della popolazione da considerare come un insieme di cittadini che aspirano a far uso della libertà e della democrazia per usufruire dei vantaggi del confronto senza doversi assuefare ad una dimensione unica, oltre la quale non vi sarebbe nulla di positivo. Parole da meditare se non si vuole una uniformità globale avvilente per tutti.

 

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