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Circa il gap sessistico

La distinzione fra femmineo e femminile
martedì 1 ottobre 2013 di Andrea Forte, Vivi Lombroso

Argomenti: Opinioni, riflessioni
Argomenti: Sociologia


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In passato, per consuetudine, lo si chiamava “sesso forte”, ma ricerche e statistiche di questi ultimi decenni hanno ormai dimostrato come il maschio umano costituisca di fatto il “sesso debole” sotto ogni aspetto, e soprattutto risulti il meno idoneo alla legge della sopravvivenza durante l’intero arco biologico.

In base alle considerazioni che furono effettuate in un precedente articolo sulla “Superiorità biopsichica della donna” in data 1/12/2005 (art35), tratte dal libro stesso edito dalla Casa Editrice Handromeda, proporremmo una distinzione fra i termini femmineo e femminile. In pratica proporremmo di indicare la specie umana come costituita da esseri umani sostanzialmente femminei, e in questo senso, che diciamo femmineo oppure umano, resta la stessa cosa. Si potrebbe anzi dire che non esistono due sessi nel senso categorico, ma piuttosto un sesso unico, quello femmineo, che può formalizzarsi in maschile oppure femminile. La mutazione in ciò riguarda circa il 4% dell’intero individuo, come ormai anche biologicamente è stato acquisito.

Nell’ottica che stiamo delineando dunque, l’essere femmineo si produce un handicap, o meglio, produce una mutazione che per un verso risulta utile alla specie, anche se per altro verso ha dei costi per depauperamento. In pratica, alcune linee genetiche non si handicappano, mentre altre si handicappano parzialmente (ginandria), e altre ancora si handicappano più o meno completamente producendo maschi, androgini, ermafroditi. Non a caso, se andiamo a vedere strutture e comportamenti dei protozoi, ci rendiamo conto facilmente dell’iter percorso dalla dimensione biologica.

Molto prima che apparissero i mammiferi, quando le forme biologiche erano elementari, la base genetica era già femminea, e l’esemplare maschile una variante contingente. Un esempio sono le vorticelle, protozoi che vivono in colonie attaccandosi ad una base comunitaria mediante un peduncolo; sporadicamente la colonia produce un mutante, cioè si verifica un esemplare maschile. Tale esemplare è privo di peduncolo fissante, e pertanto vaga sinché non scivola nel corpo di una femmina, lasciando il proprio nucleo, cioè eiacula, dopodiché esce dal corpo della femmina, si contrae e muore.

È ormai un dato acquisito che vi siano poche eccezioni fra tutte le specie animali alla regola della supremazia femminista. La maggior parte di tali eccezioni si verifica presso i primati, e si evidenzia soprattutto in termini di una poligamia esercitata dal maschio. Ciò ha indotto erroneamente a ritenere che vi fosse sistematicamente una legge naturale conferente al maschio alcuni diritti di superiorità, e quindi di sopraffazione sulle femmine. Resta il fatto che nella stragrande maggioranza delle specie animali il ruolo del maschio è sfacciatamente limitato a quello di servente, in molti casi a quello di semplice produttore spermatozoico (vedi alcuni insetti dove la funzione del maschio di norma si esaurisce con l’accoppiamento, dopodiché o muore o viene letteralmente divorato dalle femmine.

Riassumendo sin qui, tutte le specie viventi sono di base a sesso unico, e quindi più propriamente diremo che sono asessuate. Alcune ricorrono alla sessualizzazione, nel senso che producono una sorta di sottospecie ad interim, definita come maschile. A questo punto, impropriamente si parla di due sessi: di fatto bisognerebbe parlare di specie basilare asessuata e di sottospecie sessuata.

Ci si potrebbe chiedere: ma perché alcune specie ricorrerebbero a tale espediente? E’ molto semplice: scorporando una parte del proprio patrimonio genetico, e rendendolo vagante, si aumenta ovviamente a dismisura la possibilità che detto patrimonio si mescoli con altri in più combinazioni. Sdrammatizzando il tutto, ci troviamo in fondo di fronte un normale processo di randomizzazione effettuata al naturale. Il rimescolio dei pacchetti genetici è altamente auspicabile per la sopravvivenza della specie. Esso infatti diversifica e dispiega le combinazioni qualitative, aumenta pragmaticamente la plasticità evolutiva della specie che lo applica. La specie umana, per così dire, sa che l’ambiente muta, ma non sa come muterà, quindi cerca di prepararsi al maggior numero di variazioni possibili.

Per quanto ci risulta, fu verso la metà degli anni 80 che qualche ricercatore cominciò timidamente ad avanzare l’ipotesi che l’encefalo femminile fosse meglio strutturato di quello maschile: ciò a causa del fatto che quello femminile disporrebbe di un maggior numero di fibre nervose, associanti i due emisferi encefalici fra loro. Essendo i due emisferi tendenzialmente preposti a funzioni diverse, non c’è bisogno di essere degli specialisti per rendersi conto che ciò predisporrà l’individuo ad una migliore connessione di se stesso con se stesso, e con la realtà circostante. In questo senso, le donne sono anatomofisiologicamente strutturate in tal senso, mentre il sopravvenire della sessualizzazione al maschile diminuisce il numero delle connessioni che si formano fra gli emisferi encefalici. Tale maggior numero di connessioni porta l’encefalo della donna a funzionare con maggior simultaneità rispetto a quello maschile, costretto a funzionare piuttosto in successività.

Seguiamo un filo. Una specie si rapporta con l’ecosistema; sopravviene uno stress; la specie innesca una mutazione genetica, ricorre a tecniche naturalistiche per affrontare la situazione. Se ci riesce, riconvive con l’ecosistema, altrimenti migra o scompare. Poniamo che riesca a riconvivere con l’ecosistema. Sopravvengono altri stress e si ripete il gioco un certo numero di volte, e quindi questa specie continua a “correggersi” e viaggia nello spaziotempo: la chiamiamo “evoluzione della specie”. Che impressione potremmo ricavarne da tutto ciò? L’impressione che ogni specie e sottospecie e singolo lottano per arrivare ad uno stato di perfezione/onnipotenza, lottano per affrontare ogni handicap in modo di stare bene sempre… il loro obiettivo, ideale, desiderio, sarebbe quello di avere tale stato di perfezione che non lo renda sofferente ed impotente di fronte il benché minimo handicap, cioè uno stato che in pratica finisca col renderlo onnipotente.

A questo punto, c’è il discorso che, identificare questo concetto di “ideale onnipotentistico”, ci può aiutare a capire quello che potrebbe essere un’alchimia strana verificatasi all’interno dell’essere umano, cioè la donna.