Il libro di Michail Walzer Guerre giuste ed ingiuste (Laterza, 2009) s’impone all’attenzione perché riesce a riprendere la vexata questio che angustiò un tradizionale filone del pensiero classico cattolico, impostando il problema attorno a temi di scottante attualità. D’altronde si tratta di una versione aggiornata rispetto a precedenti edizioni, e che tiene quindi conto del corso delle più recenti vicende internazionali e in particolare dell’esito di paesi in subbuglio per guerre non concluse come in Afganistan ed in Iraq, paesi nei quali ogni giorno si constata che i danni maggiori continuano a colpire implacabilmente i soggetti non combattenti.
Si può parlare di “legittimità” della guerra? La domanda – come osserva lo studioso di Princeton – si trascina dai tempi degli ateniesi in lotta con i persiani, ha coinvolto Shakespeare (Enrico V) e si è spesso tramutata nella ricerca dei comportamenti tenuti dai belligeranti: se ne è occupato anche Solgenitsin (Agosto 1914) a proposito dei generali russi. La logica della guerra ha una sua ineludibile necessità, come ricordava von Clausevitz. Walzer osserva che il più delle volte la guerra si rivela come una forma di “tirannia” che porta alla distruzione totale dell’avversario, senza tener conto delle “regole di guerra”, espressione quest’ultima che potrebbe apparire – osserviamo – un ipocrita ossimoro, perché la guerra di per sé significa fine, esclusione d’ogni regola morale.
Viene citato il caso di Rommel che bruciò l’ordine di Hitler che imponeva l’uccisione di tutti i soldati nemici catturati dietro le linee tattiche. Si può aggiungere, in senso opposto, l’ordine del generale Patton in Sicilia, di non tentennare nel fare fuori – come poi avvenne – i prigionieri italiani appena catturati.
Altro tema riguarda le azioni di “guerra preventiva” come nel controverso caso del primo attacco sferrato dagli israeliani nella guerra dei sei giorni (1967), oppure i cosiddetti “scopi di guerra” e soprattutto le conseguenze della “resa incondizionata”. Certo tutto si complica quando una della parti combattenti presume di combattere una “giusta crociata” che quindi dovrebbe tutto giustificare pur di conseguire la vittoria, compreso l’uso indiscriminato di qualsiasi strumento bellico. Sin dall’ultimo conflitto la condizione dei civili è divenuta preminente rispetto agli stessi combattenti di prima linea, che era stato invece il carattere prevalente dei precedenti conflitti.
E il “terrorismo” è di per sé una nuova forma di guerra, che va assunta anzi un aspetto preminente dei giorni nostri, come in parte lo era stato già in altri periodi. Se ne parlò in occasione della lotta per la liberazione dell’Algeria, e in riferimento alle punizioni inflitte da eserciti occupanti come rappresaglia per attentati (come in Italia nella tragedia delle Fosse Ardeatine, conseguente all’azione dei Gap in via Rasella a Roma). Le cosiddette leggi marziali di guerra emanate da singole potenze possono dare un senso di “legittimità” a violenze inaudite? I casi di “emergenza suprema” portano a giustificare come “necessità” qualsiasi sopraffazione o violenza? Sono tutti interrogativi che impongono una riflessione, perché si rischia di ritenere “normale” qualsiasi tipo di massacro effettuato per eseguire ordini superiori.
Si giunge così al punto più delicato: la difesa non violenta, quando cioè si adottano i metodi della disobbedienza, della non cooperazione, del boicottaggio, dello sciopero. In questi casi la guerra aggressiva diviene lotta politica e l’aggressore viene combattuto e colpito in quanto tiranno usurpatore. Walzer fa notare come la violenza indiscriminata degli avversari può divenire in un paese occupato una delle maggiori forme di reclutamento per la guerriglia. Si torna così al tema della immunità dei non-combattenti: cioè al possibile rispetto di norme da osservare, una forma di “limitazione” della guerra. L’autore ritiene che questo può essere “l’inizio della pace”. Una visione forse troppo ottimistica. In ogni caso quindi non più il problema se sia “giusta” o meno la guerra, ma quello dei comportamenti da tenere nel caso di un conflitto, quindi non più un problema degli Stati ma dei singoli esseri umani.