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Dopoguerra (Mondatori, 2007)

L’EUROPA DALLA TRAGEDIA ALL’INTEGRAZIONE NELLA PODEROSA ANALISI DI JUDT

Opera veramente monumentale dedicata a “come è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggi”
martedì 20 maggio 2008 di Carlo Vallauri

Argomenti: Storia
Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Tony Judt


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Opera veramente monumentale Dopoguerra di Tony Judt dedicata a “come è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggi” (Mondatori, 2007).

Lo studio dello storico britannico segna una pietra miliare nella conoscenza approfondita dei mutamenti e turbamenti del vecchio Continente attraverso la guerra fredda, la contesa tra le economie, le contrapposte esperienze comunista e socialdemocratica, sino alla graduale transizione politica della Russia, culminata nella caduta di un “ordine” imposto e non più in grado di controllare il suo impero.

Vi sono nel libro alcune parti che assumono particolare rilievo ai fini della acquisizione dei dati reali delle trasformazioni avvenute: si guardi ai tentativi della Francia di emergere con un peso incisivo tra i grandi mentre incontrava molteplici ostacoli interni, nella fase conclusiva della politica coloniale, nella ricerca di un modus vivendi con una Germania divisa ma avviata, almeno all’Ovest, alla sua rinascita.

Ad Est il predominio politico esercitato dai modelli comunisti andava verso crescenti difficoltà: dopo la decimazione o l’assorbimento dei principali avversari, il passaggio dai governi di coalizione al monopolio del potere, mostrava i limiti di qualsiasi prova di democratizzazione. La peculiarità della condizione jugoslava spiega la sua autonomia. Sin dalla prima crisi di Berlino nel ’49 risultava l’insostenibilità della situazione nei tempi lunghi. Nel “vortice” di Stati in condizioni di guerra permanente contro i propri cittadini, la prospettiva entusiastica della propaganda comunista era destinata ad infrangersi contro la realtà.

Interessanti le pagine sugli intellettuali ed artisti, a cominciare da quelli italiani che daranno vita a fermenti culturali originali. Il dopoguerra – scrive l’A. – è durato molto a lungo, più a lungo di quanto gli storici abbiano talvolta creduto, riconsiderando le difficoltà iniziali sotto la scintillante luce della successiva prospettiva. Anziché rivolgersi verso soluzioni estreme, come dopo la prima guerra mondiale, l’opinione pubblica si allontanò dalla politica. Ma, superando le difficoltà, si affermarono gli svaghi e caratteri familiari al posto della partecipazioni agli affari pubblici, mentre riprendeva a salire il tasso di mortalità. Ma nella “nuova stabilità” la distanziazione dalla politica avrebbe condotto – osserviamo – alla prevalenza di interessi e preferenze che ad es. hanno portato in Italia l’esplosione del berlusconismo. “Frantumate” le illusioni nei due differenti spazi europei è sopravvenuta l’era del benessere. Secondo l’interpretazione di Marcuse, si verificava l’espansione di azioni indirizzate a soddisfare non i bisogno veri, ma quelli ispirati dal consumismo.

Judt è piuttosto amaro nel raccontare il Sessantotto:fenomeno di “carattere parrocchiale e nettamente presuntuoso”, dalle operazioni che fanno da scintilla agli eventi del “maggio”, linguaggio ideologicamente caricato, programmi ambiziosi, mentre la retorica marxista faceva da sfondo nascondendo uno spirito anarchico che tendeva a “rovesciare e umiliare” l’autorità. Le rivendicazioni erano sospinte quale effetto del malcontento e della frustrazione a causa delle condizioni di esistenza. Si voleva cambiare qualcosa nello stile di vita.

Su questo punto specifico vorremmo osservare che – contrariamente a quanto sostenuto nel libro – De Gaulle comprese bene gli eventi, tanto che riuscì a dividere gli operai – accogliendo le loro richieste – dagli studenti, rimasti obnubilati dalla venerazione delle loro speranze immaginifiche. Esatto invece che caratteristica fu, in quella stagione, uno spirito “fondamentalmente apolitico” e ciò d’altronde spiega il ripiegamento avvertito da quelle agitazioni che sembravano voler imitare “uno spettro delle rivoluzioni”. Le “speranze” furono sostituite dalla realtà in una nuova chiave politica, i cui mutamenti condussero ad una “transizione” (es. il caso di colonnelli in Grecia) per preparare il terreno atto a creare “nuove realtà” sì da mettere in crisi le ricette keynesiane. Sarà la signora di ferro a dare lezione per come migliorare il rendimento economico in Gran Bretagna. Ai laburisti occorreranno 14 anni e tre diversi leader per riprendersi dalla catastrofe. La disintegrazione degli schemi grandiosi e delle teorie onnicomprensive caratterizzeranno l’epoca successiva, definita del “potere dei senza potere”. Il dibattito sui diritti individuali coinciderà con la ritirata dal marxismo da un lato e la conferenza di Helsinki del 1975 sul piano dei concreti rapporti internazionali. L’intelligenza dissidente nei paesi dell’Europa orientale darà un segnale significativo, dalla Polonia a Praga, mentre lo slogan “tu fai finta di lavorare e io faccio finta di pagarti” fotografava l’economia socialista dell’Est.

La “trasparenza” di Gorbaciov era un incoraggiamento alla pubblica discussione: nell’87 nove famiglie sovietiche su 10 possedevano un televisore. Nel maggio-giugno ’89 si tennero le prime relativamente libere elezioni dal ’18: i candidati erano scelti dal partito ma entrarono nell’agone voci indipendenti e critiche L’abbandono dell’avventura nell’Afganistan segnò la modifica dei rapporti verso l’estero. L’impresa di Gorbaciov cozzava contro le incrostazioni resistenti ed egli stesso non aveva immaginato l’esito delle sue imprese. Finì per perdere l’appoggio degli stessi sostenitori del cambiamento. La crescita e la vittoria di Solidarnosh avevano dato un colpo mortale al comunismo. Le contraddizioni delle cosiddette “democrazie popolari”, come si erano autedeterminati i regimi comunisti dell’Est europeo, emergevano quanto più si tentava di cancellare un passato vergognoso, come nel caso dell’Ungheria dove nel giugno ’89 (cioè 4 mesi prima del crollo del muro di Berlino) venivano riesumate con grandi onori le salme delle vittime della repressione sovietica del ’50, a cominciare da Nagy. E mentre il governo della Germania dell’Est preparava timidi tentativi di liberalizzazione, poche migliaia di berlinesi risolveranno la questione cruciale che da 45 anni penalizzava quella grande nazione, abbattendo quella traccia di separatezza che pesava come un macigno: una straordinaria rivoluzione spontanea, rapida e pacifica simbolicamente rivolta a connotare finalmente una scelta profondamente vissuta.

Cominciò così la difficile transizione che avrebbe portato alla piena autodeterminazione del popolo baltici e del centro Europa e dei Balcani. Molto dettagliata nel libro la ricostruzione di questi eventi sino alla fine di dicembre quando Eltsin assunse il potere a Mosca, determinando la fine dell’Urss. La tragedia Jugoslava viene analizzata con altrettanta precisione, sottolineando l’atteggiamento chiuso dei britannici al riguardo rispetto alle iniziative di Washington e della Comunità europea. Una “resa dei conti” che in tutto l’Est seppelliva e condannava definitivamente l’intera esperienza comunista.

È nata da quel travaglio una “nuova” Europa che ha accelerato le ragioni di una comunanza di intenti e di scelte. La parte occidentale del continente aveva vinto una lunga battaglia e la stabilità raggiunta era la prova dei risultati positivi compiuti, anche se – osserva acutamente Judt – gli europei di oggi sono più eterogenei che mai, nella sovrapposizione di identità ed esperienze: la “moltepliticà” europea può divenire allora un fattore di “positivo avanzamento”, al quale si rileva – tra l’altro – Mitterand ha dato un contributo notevole. E l’Europa allora assume il carattere di uno specifico “stile di vita” attraverso il quale ha cercato di superare il suo caratteristico timbro “vecchio”, nei confronti della più moderna America. Così la nuova Europa si è presentata non come un più grande Stato, ma come una realtà che riconosceva le rispettive identità in una originale forma di integrazione, garante della comune sicurezza. Quindi l’autore conclude con una esaltazione della nuova comunità fondata sul rispetto delle singole identità nel superamento dei rapporti, anche se resta difficile preconizzare per ora un “patriottismo dell’Europa”. Nelle pagine finali richiami culturali di alto valore danno un suggello alla storia drammatica vissuta con un timbro di speranza, pur nella memoria delle terribili vicende vissute prima nella guerra trentennale (1915-1945) poi nella ultra quarantennale separazione imposta da Mosca.

Ecco perché l’opera di Judt si pone come uno strumento importantissimo per la comprensione dei fatti accaduti, e non solo per l’Europa.

 

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