La crisi della democrazia si è accentuata nell’era della globalizzazione per una serie di ripercussioni e incroci che hanno minato alla base le istituzioni delle singole nazioni, private progressivamente delle funzioni proprie di ogni Stato. Lo storico inglese Eric H. Hobsbawm chiarisce, in un sintetico e breve libro La fine dello Stato (Rizzoli, 2007), i complessi nodi che spiegano come si sia determinato questo fenomeno.
La crescita delle disuguaglianze sia all’interno dei diversi paesi che sul piano internazionale provoca tensioni sociali sempre meno controllabili e le popolazioni perdono le protezioni di cui beneficiavano. Le guerre preventive e gli interventi armati delle maggiori potenze confermano la prassi dell’imperialismo, che si cerca di giustificare in nome dei diritti umani, con evidente contraddizione di fondo. L’idea che i regimi tirannici si possono abbattere solo mediante la forza si è affermata come una necessità. E la fine della guerra fredda ha provocato una instabilità, nella quale prosperano le velleità dei gruppi (non statali) che riescono a dotarsi di propri strumenti di distruzione, sicché sono in grado di sostenere indefinitamente uno scontro contro potenze statali.
Mentre aumentano i profughi dai paesi devastati dalla guerra (le statistiche aggiornate riferiscono, al momento, di un numero ingente, oltre 33 milioni, di “sfollati”), la rivoluzione tecnologica ha favorito la diffusione dell’ideologia capitalistica del libero mercato globale, rendendo sempre più rarefatta la possibilità di difesa degli interessi nazionali. La logica transnazionale dell’impero economico supera infatti le identità nazionali, sbriciolate in gruppi di identità auto-referenziali più ristrette. In tali condizioni la stessa democrazia liberale – afferma Hobsbawm – diviene una “mera figura retorica”, anzi – aggiunge lo storico – le condizioni reali di molti paesi inducono a porre in dubbio la convinzione secondo cui un governo liberal-democratico sia preferibile a governi non democratici, in quanto il “benessere” delle popolazioni sembra non dipendere dalla sussistenza del primo dei due modelli.
Prevale, nell’attuale realtà dei sistemi economici in trasformazione, il dato di fatto della minore utilizzabilità dei servizi pubblici a disposizione dei cittadini rispetto ai servizi privatizzati. E lo Stato territoriale sovrano è oggi più debole, perché non può contare né sull’obbedienza passiva né sul servizio attivo di suoi cittadini: le elezioni si combattono attraverso campagne mediatiche, sì da oltrepassare i meccanismi intermedi di governi rappresentativi ufficiali. Piccoli gruppi, da Seattle in poi, possono effettuare azioni dirette incisive. E dagli USA all’Italia l’elettorato confida sempre meno nello Stato.
Se i sistemi sovietici sono falliti perché non rendevano possibile uno scambio bilaterale tra coloro che prendevano le decisioni e coloro ai quali le decisioni venivano imposte, la globalizzazione contiene in se “lo stesso errore”: questa interessante osservazione è al centro delle riflessioni di Hobsbawm, il quale precisa: l’elettorato è aggirato, le imprese transnazionali bypassano la politica e sfuggono alle considerazioni sulla legittimità politica e sull’ “interesse comune”. In questa cornice si inserisce l’esplosione del terrorismo. In realtà vi è un livello di violenza accettata che produce contro-violenza, un processo di barbarizzazione (preconizzata a suo tempo da Castoriadis quando poneva l’alternativa tra socialismo e barbarie) Gli Stati hanno preso il monopolio del potere e delle risorse, le regole comuni prima accettate, sono state infrante, gli atti di violenza sono divenuti rituali quasi necessitati. Una degenerazione patologica.
L’autore ritiene che sia stata la sostituzione dei concetti morali con i presunti “imperativi superiori” a determinare la violenza sistematica globale supernazionale.
Dopo aver esaminato i piccoli gruppi armati (Ira ed ETA, cui aggiunge le Brigate Rosse) H. inserisce il fenomeno della loro diffusione nell’insieme dei mutamenti in corso e mette in connessione le difficoltà economiche con quelle relative all’ordine pubblico, aggravato da fenomeni collaterali come l’estensione della delinquenza comune e giovanile. Un’analisi serrata nel denunciare le “istituzioni di guerra” mobilitate in luogo dei servizi civili: l’esempio della Gran Bretagna – che non ha perso la testa di fronte all’IRA – induce a ritenere che il vero pericolo del terrorismo non sia costituito da “un pugno di fanatici” ma dalla paura irrazionale suscitata dai media e dai governi insabbiati nei loro rituali.