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Il Ribelle (Marsilio)

UN RIBELLE SCETTICISTA, OSSIMORO DELLA NUOVA INTELLIGENTIA

Il recente libro di Massimo Fini
lunedì 12 giugno 2006 di Carlo Vallauri

Argomenti: Letteratura e filosofia
Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Massimo Fini


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Con Il Ribelle (Marsilio) Massimo Fini offre la “summa” del suo pensiero. I suoi estimatori (come il sottoscritto) gli sono grati, coloro che non lo conoscono possono inserire il suo nome in quel circuito della critica anti-conformista di cui lo scrittore lombardo è stato antesignano in questa stagione della convenzione omologatrice globale.

La disposizione alfabetica degli argomenti ne favorisce una lettura distesa, quasi come un libro da distillare a gradi. Per chi ne aveva già gustato stile e contenuti vi è un ulteriore elemento di riflessione, specie per le materie più controverse ed inserite, negli anni più recenti, al centro del dibattito culturale. E la voce sul “relativismo”, posta all’inizio del libro, vuol sottolineare la personale posizione filosofica dell’autore, riassumibile nella negazione di certezze assolute (non vi sono più neppure nella fisica, osserva) nella rimozione di quegli accrediti storicamente accettati da una parte consistente dei pensatori occidentali che vedono nell’illuminismo la fonte di ogni sapere godibile ed utile. Egli preferisce rilanciare la “dignità”, quel concetto che Pico della Mirandola ebbe l’intelligenza di indicare agli uomini di una età memorabile nel campo della scienza e delle culture. E diciamo “culture” al plurale proprio per entrare nello spirito con cui Fini guarda alla complessità del reale. Si tratta di uno scetticismo che l’autore tiene a rivendicare, contro ogni assolutismo - culturale o istituzionale - e che non si tramuta in cinismo, anche se a tratti la sua raffinatezza sembra praticarlo. Abbiamo già richiamato la sua critica alla pretesa settecentesca di soddisfare “il diritto all’eguaglianza”, una collocazione mentale che lo porta a condannare chi vuol trafficare troppo con la “felicità” e a rimpiangere l’Italia povera degli anni ’50, quando “non si dubitava che si potesse essere poveri e felici”. Sia consentito far notare che psicologicamente è valida tale nostalgia, da noi condivisa, ma è altrettanto certo che le condizioni di vita non sono da allora tanto migliorate perché in molti - in Italia come in altre parti del mondo - hanno oggi un reddito più sicuro che garantisce beni materiali, ma perché, a nostro modo di vedere, si è accresciuta la capacità, nei singoli, di combattere i mali fisici, un dato indiscutibile.

E qui veniamo subito all’altro punto che, pur rilevando l’intelligenza delle affermazioni di Fini, non si può non notare (e l’abbiamo già osservato recensendo il precedente suo libro sul “vizio oscuro” dell’Occidente). La critica alla democrazia, con tutti i difetti che caratterizzano questo tipo di ordinamento (non solo nel caso italiano), contiene indubbiamente elementi veritieri, ma non sembra tenere sufficiente conto dei “progressi” e “miglioramenti” (nel senso più corrente, e più pedestre del termine) conseguiti attraverso le esperienze duramente vissute dai paesi che a tali forme istituzionali si sono affidati. È infatti un discorso troppo generico quello di rifiutare (giustamente) i luoghi comuni dei “motivi umanitari” per accettare invece quello delle democrazie come “aristocrazie mascherate”. Egli cita correttamente Pareto, Michels e Mosca (tre geniali scrittori politici che per anni ho “imposto” agli studenti proprio perché troppo trascurati dai fautori del “politically correct” dominante) ma nei loro scritti noi troviamo la spiegazione della falsificazione a cui le democrazie danno luogo, non la dimostrazione scientifica che democrazia è solo oligarchia e potere dei mediocri. Si può ritenere invece - come il sottoscritto ritiene - che la vita, nella sua continua evoluzione (un concetto negato da Fini), abbia mostrato come si possano usare mezzi adeguati per affermare certi criteri e metodi utili a vincere - di tempo in tempo - certi “mali”, rimuovendo, certi “eccessi”.

Proprio uno scetticismo derivato dalla realtà - a nostro avviso - induce al contrario, a valutare come possibile, quelle modifiche che consentono, in momenti dati, in contesti specifici, di conseguire risultati, non certi né definitivi, non apportatori di “felicità” (salvo qualche parentesi di estasi fittizia), ma certamente apprezzabili dai “poveri” in monete e in spirito. Le evocazioni dell’autore sono inquietanti e riescono a tenere vigile il senso critico - come ormai pochi scrittori delle nostre parti - ma non convincono giacché la realtà umana mostra il contrario. Interpretazione soggettiva, tanto banale da sembrare ovvia, eppure è un luogo comune che aiuta a fare qualcosa, sia pur minima, per dare appunto dignità quando ad es. si riescono ad individuare gli aspetti altruistici nelle miserie d’ogni giorno, arricchiti certo più dalle speranze illuministe che dalla rinuncia a confidare in esse.

 

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