Sembra paradossale ma in un paese come l’Italia, pure così ricco di reperti che testimoniano di una civiltà millenaria e che tornano alla luce molto frequentemente un po’ dovunque, bisogna arrivare all’Università per capire come analizzarli, come affrontare lo studio di monumenti e resti del passato, come catalogarli e conservarli, nonché come valorizzarli, considerato il forte richiamo a livello turistico.
- Fig. 1
Non c’è infatti, prima, alcun ordine di studi, liceali tecnici o professionali, che indirizzi un adolescente verso la disciplina dell’Archeologia, mentre sarebbe decisivo educare alla conoscenza e alla salvaguardia del bene archeologico già dalle scuole medie, non certo per creare tanti specialisti, piuttosto per trasmettere la coscienza dell’unicità e del valore del patrimonio culturale che ci è pervenuto e che toccherà per l’appunto alle nuove generazioni amministrare e ritrasmettere a loro volta.
E’ in questo senso che va letto a nostro parere questo volume, agile quanto significativo, da poco in libreria (logo), frutto di una ricerca meticolosa ed esauriente, di Simona Sperindei che davvero segna un’importante tappa nel settore della letteratura archeologica, con la messa a fuoco del passato di una delle province del centro Italia più affascinanti per tradizione, cultura e storia; grazie ad esso si è fatta luce su quello che fu l’antico centro romano di Pitinium Pisaurense, identificato agli inizi del seicento con la località di Macerata Feltria ( fig. 1) in forza di una iscrizione in cui veniva nominato un’ importante personalità femminile appartenente alla gens Abeiena, tale Abeiena Balbina, patrona, appunto, del municipii Pitinatium Pisaurensium.
Nelle loro ricerche gli archeologi di oggi possono valersi di strumenti adeguati ed estremamente precisi, ma possiamo immaginare le difficoltà cui andarono incontro i loro colleghi dell’epoca coinvolti nell’impresa degli scavi, per portare alla luce “grandi e piccole statue di bronzo e marmo… e fragmenti con molte tavole scritte d’elogij degli homini egregij … medaglie d’ogni materia fusibile gettate, cornigioni di fine pietra intagliati … frammenti d’idoli e rovinati Altari”.
Come quando, ad esempio, il sacerdote Pier Antonio Guerrieri (1604 -1676) “spingendosi lungo la via che dalla pieve saliva alla chiesa di san Teodoro” (fig. 2) individuò una serie importante di reperti, tra cui un busto di Apollo, una testa di idolo e soprattutto una gigantesca lastra di travertino, oggi dispersa, su cui era incisa la scritta Saturno Patri Sacrum, un “epigrafe di notevole importanza in quanto –come sottolinea l’autrice- attesta il culto di Saturno nel panorama culturale delle comunità romane del Montefeltro”.
- Fig. 2
Ma fu un archeologo urbinate Raffaele Fabretti (1618 -1700), a pubblicare nel 1699 una raccolta di epigrafi,in una delle quali compariva una iscrizione (fig. 3) con cui venivano smentite le vecchie teorie dimostrando che Pisaurus in realtà era distante tre chilometri da Macerata Feltria. Qualche decennio dopo, precisamente nel 1738, un altro nobile erudito Annibale degli Abbati Olivieri (Pesaro, 1708 - 1789) grande figura di mecenate, ricercatore e collezionista avrebbe in effetti confermato la tesi di Fabretti (e non a caso l’epigrafe è custodita oggi al museo di Pesaro che porta il suo nome).
La Sperindei ha perfettamente ricostruito tutti questi passaggi, ma anche il contesto nel quale si mossero questi ed altri appassionati eruditi, il modo nel quale si espresse e si affermò la loro speciale passione antiquaria.
Il collezionismo antiquario in effetti si diffuse in modo esponenziale nel corso del secolo decimottavo, assumendo l’aspetto di una vera e propria mania, specie tra gli aristocratici che unirono al desiderio di possesso –a volte smodato e non sempre commendevole- anche il rigore della ricerca e della schedatura, favorendo in buona sostanza la nascita della moderna archeologia.
La passione archeologia di Raffaele Fabretti, ad esempio, nacque quando, al servizio del cardinale Gaspare di Carpegna (Roma, 1625 – 1714), fu direttore degli antichi cimiteri romani, divenendo anche amico di importanti collezionisti di reperti antichi, cosa che lo favorì certamente nella realizzazione della sua preziosa collezione privata fatta di “lastre cristiane e pagane, cippi, bassorilievi, in prevalenza acquisiti da antiquari o ricevuti da importanti nobili romani”.
Ma la novità della sua raccolta, come nota l’autrice “era la nuova concezione dello studio e la conservazione dell’antico come laboratorio e fonte di innovazione”, frutto probabilmente anche della frequentazione di quei circoli intellettuali che gravitavano intorno alla Regina Cristina di Svezia (Stoccolma, 1626 – Roma, 1689) e che, anche dopo la sua scomparsa, furono senza dubbio all’avanguardia in questo campo. Non a caso proprio da un gruppo di letterati che fecero anche parte del suo sodalizio, come Ludovico Antonio Muratori, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti ed altri, venne fondata l’ Accademia dell’ Arcadia, che fu certamente la più importante del settecento.
- Fig. 3
Proprio in una cronaca dell’epoca redatta per l’ Arcadia si parla del suddetto erudito Fabretti come assolutamente dedito a questo scopo ”in Roma tutto si diede allo studio dell’Antichità … e tutto ciò che fosse rimasto dell’ingiuria del tempo non solo esaminare, ma con minuta diligenza rimirare e investigare”.
Ma il fascino dell’antico coinvolse in effetti così tanti letterati artisti studiosi e collezionisti da generare una vera e propria moda, tanto che, come scrive la Sperindei “particolare interesse verso la raccolta di materale archeologico” mostrarono anche molti importanti uomini di chiesa. La studiosa cita il ruolo che ebbe il cardinale Giovan Francesco Stoppani (Milano, 1695 – Roma, 1774) non solo nel recupero dei reperti appartenuti al Fabretti dopo la scomparsa di questi, ma anche come promotore di ricerche nel territorio del pesarese, giusto nei pressi della località di Macerata Feltria.In una Relazione apparsa nel 1756 sul Giornale dei Letterati d’Italia si faceva cenno alla costituzione di una raccolta archeologica senza eguali fuori Roma, che nessuno “aveva mai pensato di farne un tal uso” e che, come commenta l’autrice, “solo grazie all’abilità del porporato si era potuto costituire nell’arco di soli cento giorni”.
C’è da dire che il cardinale milanese si era potuto valere del lavoro e dell’aiuto dell’abate Giovan Battista Passeri (1694 – 1780) che in qualità di giureconsulto accolse a Pesaro il cardinale all’inizio della sua legazione, e che proprio “eseguendo un comando dell’Eminentissimo Sig. cardinale Stoppani”, come ebbe a scrivere nell’opera Della Storia dei fossili dell’agro pesarese, si inoltrò in alcune zone “della nostra provincia Metaurense” alla ricerca di “tutti i vestigi della veneranda antichità che giacevano negletti in oscurissimi luoghi”.
Descritto dall’autrice come “appassionato ricercatore d’antichità” il Passeri era anche “frequentatore dell’ Accademia Pesarese” che si riuniva presso la residenza di Annibale degli Abbati Olivieri, un vero “ambiente cosmopolita ricco di fermenti culturali … che a Pesaro sin dal 1730 divenne un’istituzione” . Qui ebbero possibilità d’incontro e scambio culturale numerosi intellettuali ed eruditi attratti anche dal materiale manoscritto, cui fa cenno la Sperindei, conservato presso la biblioteca Olivieriana che il nobiluomo ebbe a formare nel corso del tempo e che rivela ancor più quanto fossero profonde la sua passione e le sue conoscenze.
“Fondamentale –sottolinea la studiosa- in questa ricostruzione è il contesto storico” tanto che nel corso del settecento la ripresa del dibattito sulla identificazione del sito di Pitinium Pisaurense , fu opera si degli storiografi che si basavano sui dati documentari, ma soprattutto degli abati-eruditi del tipo di Giovan Battista Passeri, come si è visto, della loro “pratica sul campo”, della loro “frenetica attività di studio rivolta verso l’entroterra pesarese che portò al recupero di antiche testimonianze”.
E dunque non per caso sul finire del secolo sarà proprio un altro abate-erudito, Giuseppe Colucci, (Fermo, 1752 – 1809) che, pubblicando nel 1795 l’opera Delle Antichità Picene, arrivava a negare ogni precedente acquisizione testimoniale e perfino documentaria, sostenendo che Pitinium Pisaurense dovesse identificarsi con Macerata Feltria, forzando però le tesi –cui pure diceva di richiamarsi- dell’ Abbati Olivieri e del Fabretti che non si erano espressi in modo definitivo sulla localizzazione del sito.
- Fig. 4
Tanto rilievo ebbero queste ricerche e questi studi che addirittura la Sperindei arriva a parlare di “forte interesse verso l’archeologia montefeltrana ormai esploso nella moda antiquaria del tempo”. Una moda che certo oltrepassò il settecento, come dimostra la “corposa documentazione “ rintracciata dalla studiosa nell’Archivio di Stato di Roma, nel fondo del Camerlengato, (fig. 4) grazie alla quale “le indagini archeologiche topografiche attinenti al territorio di Pitinium Pisaurense si sono arricchite di nuovi dati e spunti di riflessione”.
Spetterà al lettore che vorrà approfondire l’argomento entrare meglio nel merito; qui basta dire, come fa l’autrice, che “i materiali prodotti in un arco di tempo compreso tra il 1820 e il 1870 evidenziano come in quegli anni … fosse attiva nel territorio un’intensa opera di scavo”. L’interesse per il sito di Pitinium Pisaurense certamente non rimase confinato ai soli limiti territoriali, cosa che testimonia “quali livelli avesse raggiunto la passione per l’antico e l’antiquaria in un territorio tanto lontano ma così vicino a Roma”.