Giovanni Russo, grazie al talento originale che l’ha sempre contraddistinto, offre un interessante Reportage sulla Calabria, “terra estrema” (Rubbettino, 2013). Una cultura “meridionalista” e liberale ha caratterizzato il suo lungo percorso che abbiamo sempre seguito con interesse, perché egli è uno scrittore che unisce ad una formazione di alto valore culturale una intima passione che si avverte anche questa volta, nelle belle pagine di un libro arguto e dilettevole.
È una raccolta di scritti che si apre con un saggio intenso di Vito Teti che rievoca alcuni aspetti salienti della sua attività di scrittore, iniziando da quando scrisse Corrado Alvaro a cominciare da Itinerario italiano del 1933 sino a una serie di successivi testi, anche in riferimento a Carlo Levi e poi con il famoso libro Baroni e contadini. Ed osserva come in effetti sia per l’emigrazione dei meridionali al Nord – il “grosso esodo contadino”, come lo chiamò – che per tratti successivi che tenevano conto delle forme di “modernizzazione forzata e distorta” imposta a quelle terre, chiariva che nel Mezzogiorno era stata realizzata “una industrializzazione senza sviluppo e addirittura falsa”.
Proprio sulle prospettive per l’avvenire di quella regione, e dell’intero Sud, Russo ha cercato di inquadrare le sue acute osservazioni, in svariati approfondimenti dal “paese solitario” (1949) alla “gerarchia del latifondo” (1960). Ed è nei “primi incontri in Calabria” che lo scrittore meglio colpisce con la rude eppur leggera rappresentazione di persone, tipizzate nelle singole diversità ed umanità, dal barone al parroco (1950). La Calabria – precisa in un altro articolo (1964) – è il problema più grave della Nazione.
È dalla prima legge di riforma agraria egli vede le concrete realizzazioni per la crescita di quelle popolazioni, insieme alla lotta contro il brigantaggio in un susseguirsi di analisi e di critiche come per “l’illusione all’industrializzazione” (1964) sino alla “faida per il capoluogo”, eventi che segnano la fine della civiltà contadina (non senza analogie – si può osservare – con Pasolini pur nelle differenziazioni di terre a condizioni diverse. Ed ancora “un messaggio di speranza e di amore”, pur quando quelle speranze venivano meno. E cedendo la parola alla Reggio ribelle (1970) c’è una continuità di spiegazioni logiche sino alla descrizione di una vera e propria “autoproduzione della rivolta” che tanti presunti intellettuali e politici non seppero comprendere al verificarsi di scontri inattesi e di barricate (1968) sino alla marcia dei trentamila calabresi a Roma (1958). L’insieme di questi scritti costituisce un colto condensato di studi veri e propri per far comprendere “le radici della nuova mafia” (1988) per poi tornare nuovamente ad Alvaro (1992). I gesti, i ragionamenti, la timidezza, persino i silenzi, si ritrovano infatti in Alvaro mentre Milano diventava la “capitale della ‘ndrangheta.
Quindi una lettura, o meglio una rilettura, che, nel riportarci indietro in eventi, sciagure e delusioni, conferma pienamente le geniali intuizioni di Giovannino, il suo equilibrio straordinario nel valutare fatti e personaggi mentre gli anni passano ed egli conferma e potenzia le sue qualità, il suo spirito di osservazione, il suo arguto argomentare. È un libro che non riguarda solo i calabresi, ma quanti hanno a cuore le storie dell’intero paese attraverso il richiamo ad epoche e momenti non trascorsi invano.