Franco Palmieri in La sommossa. La piazza contro la Democrazia (Bietti editrice) ha mostrato una ampia apertura mentale nell’osservare fenomeni inquietanti della vita nazionale, riferita in specie negli anni cinquanta, a conferma delle sue qualità di ricercatore ancor prima che di scrittore.
Infatti l’autore ha una attenzione centrata su molteplici aspetti dell’Italia post-bellica, senza farsi impressionare da chi guidava di più o meno bene i comportamenti dei gruppi politici in grado di influire, al di là della maggiore ampiezza di mezzi e su una opinione pubblica sconcertata e che stentava ad adeguarsi alle motivazioni “democratiche”: una novità per la generazione che aveva subito le sopraffazioni e gli errori di una dittatura scaltra ma dimostratasi incapace di comprendere quel che veramente interessava alla grande massa degli impiegati, dei contadini, degli operai.
Troviamo nel libro, da molto tempo da noi scelto per una riflessione sulla gioventù del nostro paese, ma che solo oggi possiamo portare a termine, vista prima dello scoppio della rivoluzione studentesca del ’68. Palmieri non si ferma alle più note manifestazioni di piazza o dei più eloquenti scritti dei nuovi “intellettuali”, bensì cerca di penetrare in profondità nelle essenziali posizioni emerse (sempre?) a difesa di una democrazia in costruzione. Vi è quindi tutto il repertorio austero della Resistenza accanto alle contorsioni di una destra che cercava di smarcarsi delle gravose eredità del fascismo. Si guardi all’elenco degli autori “virtuosi”, come anche – ed è questa non una divagazione bensì una penetrante excursus a più largo raggio – alle considerazioni su fatti, personaggi, autori forse da alcuni allora considerati, a torto, minori. Della marcia sicura verso una più lunga partecipazione popolare alle attività non prive di errori da parte delle istituzioni democratiche, la lettura offerta oggi consente di estendere la mente verso originali ripensamenti, che chiamano in causa da Berto (Il cielo è rosso) a Mario Tobino (Il clandestino) nonché scrittori entrati in scena più tardi.
C’è infatti – osserva Palmieri – una linea “rossa” che muove dalla Genova partigiana (ricordiamo in ogni caso che in tutta Europa solo in Liguria un Corpo d’armata della Wehrmacht si è arreso ai ribelli) alla stessa città vista negli eventi successivi, con particolare riguardo alla (mancata) realizzazione di un congresso del MSI nel 1960 e ai conseguenti movimenti di proteste, con ulteriori approfondimenti che giungono sino ai fatti clamorosi del 2001!). Analoga la propensione a cercare i collegamenti tra Reggio Emilia post 1945 e la stessa città analizzata nei suoi nascosti meandri sino oltre il fatidico ’68. Ma da tutta quella fase l’autore rileva prevalentemente un filo “rosso” di intransigenza e di iniziativa politica comunista, sino alle brigate rosse. Non tutti gli accostamenti richiamati appaiono in verità validi, né le “continuità” degne di elogio, tuttavia si scorge una volontà di andare al di là di interpretazioni comuni, facili, spesso superficiali.
Interessanti ad esempio da un lato i richiami a romanzi di Meneghello (I piccoli maestri) e Cassola (La ragazza di Bube), dall’altro a libri storici di Averardi (I grandi processi di Mosca 1936-38 che hanno fatto conoscere le pagine peggiori dello stalinismo) e poi le memorie di uno dei primi ed autentici brigatisti (Franceschini: Mara, Renato e io) oltre alla filmografia – ampiamente rievocata – da Emmer a Fellini – sino a eventi poco conosciuti come per il film di Bulajic sulla battaglia della Neretva in Jugoslavia.
Nè va trascurata la sequenza con la quale l’autore ritorna sui suoi temi preferiti, e che spiegano anche il titolo, giacché egli si è soffermato a lungo sul “ruolo” delle sommosse a Genova (seguendo, tra l’altro, il bellissimo e inquietante libro del commediografo A. Parodi) come a Reggio, in una continuità che sottolinea quella asprezza “popolare” della città emiliana come “prova” di “sommossa”, ma non certo – osserviamo – contro la democrazia. A noi la tesi di Palmieri non sembra affatto convincente, giacché conduce sino al rovesciamento delle posizioni concretamente emerse, anche se una lettura storicamente corretta non può trascurare la motivazione delle ribellioni stesse. Si ricordino, tra l’altro, per quella di Reggio del ’60, gli elementi giustificativi indicati allora con validi argomenti, da un giovane costituzionalista in erba (qual’era Giuliano Amato, peraltro non citato): quei fatti avevano finalità di “difesa” della democrazia e non la minacciavano, questo è il punto centrale e non può essere eluso o stravolto. Palmieri tiene a richiamare una serie di osservazioni in merito: sono state quelle tragiche giornate, quelle esperienze in realtà indicative dei rischi per la democrazia a causa delle trame chiaramente manifestate dai settori retrivi della società italiana, contrarie al pieno dispiegamento della democrazia, come emerse chiaramente..
Ecco allora che la ricostruzione dei fatti rievocati da Palmieri finisce per perdersi dietro ad una poliedricità di “possibili” interpretazioni, tutt’altro che precise e documentate. Pertanto proprio in questa contraddittorietà di linee, finisce per perdersi una lettura, tutt’altro che convincente, circa quei fatti ed il ruolo dei “rivoltosi”. Ogni fenomeno va osservato a sé ed è troppo facile indicare alcuni aspetti, senza approfondirne i contenuti e senza tener conto dei fatti reali, precedenti e successivi.
Una strana linea di inquietudine, intrecciata e spesso contraddittoria, percorre quegli anni, dal ’45 in poi, ma nel comprensibile tentativo di allargare la scelta delle tesi e dei richiami degli argomenti e delle citazioni, l’autore finisce per perdere i fili più sicuri, accertati ed accettabili, rinunciando ad un più esatto valore probatorio. In questi limiti, la lettura può essere utile a chi vuol prendere atto di una realtà storica ed umana più larga di quella “convenzionale” ma che finisce per esaurirsi in sé, se non si precisano o si alterano alcuni termini storici degli eventi rievocati.