Come mai nell’Italia che appena si apriva alle spinte sollecitatrici della democrazia liberale nell’Ottocento acquistò un ruolo di primo piano il maggior esponente dell’anarchismo europeo, Michail Bakunin?
La raccolta di saggi scritti dallo stesso rivoluzionario russo, ora pubblicata a cura di Lorenzo Pezzica Viaggio in Italia (Eleuthera editrice), offre un dettagliato e preciso quadro delle idee bakuniane, della sua ardente azione politica e in particolare della sua presenza in Italia. Sono analisi molto interessanti sulla situazione del nostro paese mentre si realizzavano i grandi movimenti che consentirono la costruzione dello Stato unitario. Certamente si tratta di considerazioni critiche acute e documentate, soprattutto a cominciare nei confronti di Mazzini. Infatti pur riconoscendo che l’agitatore genovese ha votato la sua vita ad “una grande causa”, osserva (1866) che ormai la sua parola non affascina perché “il grande maestro italiano” non ha “un reale obiettivo”, sembrando la repubblica da lui propugnata una forma “identica alla monarchia costituzionale”. Analoga delusione per quanto riguarda Garibaldi che non è stato in grado di fare quella rivoluzione che aveva propugnato. Quindi contro la menzogna di vecchie forme costituzionali, il militarismo, la burocrazia, i gruppi di interesse, sostiene l’urgenza di effettuare una rivoluzione del popolo in nome della giustizia sociale.
Negli scritti successivi condanna i clericali, dal papa all’attiva grande borghesia mentre elogia la media e piccola borghesia, “che ha creato tutto quello che è stato fatto in Italia per la libertà e per il progresso”, anche se si è ridotta – precisa – in una “casta” rivolta solo a sostenere il proprio interesse, tanto da camminare verso la propria rovina: adesso – aggiunge – la gioventù deve aiutare il popolo a distruggere lo Stato unitario e innalzare la bandiera “federale” della nazione. È il proletariato urbano – sostiene – a dover prendere in mano il programma rivoluzionario per guidare la lotta del popolo dalle campagne. Poi, nel 1873, sollecita il popolo italiano a costituire le alleanze per battere il dominio economico della borghesia in nome dell’Internazionale. L’Italia è riuscita a liberarsi da sé, ma il governo monarchico ha rovinato il paese generando un dispotismo che “fa quasi rimpiangere i Borboni”. In nome della rivoluzione la popolazione deve realizzare un programma di “libertà e giustizia”. Contro ogni programma accomodante afferma l’esigenza di una “vera rivoluzione” fondata su ateismo, socialismo e federalismo.
Altro punto significativo è la denuncia della religione quale “base di ogni tirannia”. Sono poi riportate nel libro alcune lettere inviate in quel periodo a personaggi (specie a Napoli) nonché una lettera a Marx (1863), nella quale dice che attende una risposta da Garibaldi affinché gli italiani si liberino della loro indifferenza scettica, della diffidenza reciproca, dell’ignoranza e dell’incapacità mostrata dai “cosiddetti capi della cosiddetta democrazia”.
Come si vede, il grande pensatore e organizzatore rivoluzionario ha saputo indagare bene nel carattere degli italiani, avendo egli a lungo soggiornato in Italia: ne apprezzava quello che essi avevano saputo realizzare nel passato (specie i fiorentini) ma diceva che, per valorizzare le “bellezze del paese” occorreva superare gli evidenti “vizi” che la comprimevano, per sollecitare le masse povere a fondare una società di liberi ed eguali.
Non vi sembra una descrizione dell’Italia di oggi, con i suoi timori, le sue incertezze e contraddizioni?
La differenza è che oggi il dispotismo è più sottile, tanto da apparire, per certi versi, persino tollerante, mentre è più duro, perché penetrante sin nell’intimo dei cittadini sottoposti, soggiogati, ingannati ed illusi, mentre può offrire certi vantaggi materiali attraverso il consumismo, l’aspetto allettante del moderno dispotismo (ne è stata espressione tipica l’Italia degli anni ’70).