Antonio di Grado, uno dei migliori studiosi della letteratura italiana, presenta in uno snello volume dell’editrice meridionale Ad Est del’Equatore (Pollena Trocchia nel Napoletano) quattro scrittori di qualità (Borghese, Malaparte, Morselli, Sciascia) sotto il titolo Divergenze, ben appropriato in riferimento alle personalità rievocate.
- Antonio di Grado
E sin dalla vista del quartetto mi ha colpito il legame unitario che unisce gli scrittori prescelti nel libro. In un riquadro della mia biblioteca (specificatamente dove sono i testi che hanno contribuito alla mia formazione), vi sono, tra gli altri, propri volumi scritti dai geniali artisti ai quali è dedicato lo studio dell’illustre professore catanese.
Ho scoperto Giuseppe A. Borghese quando avevo da poco terminato il liceo: il suo Rubé spiega, a mio avviso, meglio di qualsiasi altro libro la nascita e il successo del fascismo, tanto che recentemente ne ho scritto in una pubblicazione dedicata alla nascita dei movimenti di massa.
Il protagonista è appunto uno dei tanti che all’indomani della prima guerra mondiale, fa propria l’infatuazione rinnovatrice di cui è portatore il social-comunismo italiano del 1919-20, ma che, dopo aver volontariamente partecipato alle manifestazioni dei “rossi”, un giorno improvvisamente, si rende conto di trovarsi dentro un corteo dei “neri”, con diverse parole d’ordine, ma la stessa spinta aggressiva e volontà di cambiamento espressa nella precedente esperienza.
Per questa ragione il personaggio Rubè è divenuto il prototipo dell’uomo-massa che proprio in quegli anni trovò – non a caso in Germania – la sua massima esaltazione nel teatro e nella letteratura. Scritto il libro nel 1921, Borgese andò poi – a fascismo trionfante – in esilio negli Stati Uniti dove lo troveremo, specie nel ’43-’45, tra i pochi in grado di spiegare veramente agli americani cause e ragioni della malattia morale che aveva colpito il nostro paese.
Acuto nell’indicazione delle qualità letterarie dello scrittore, di Grado sa ben illustrare nella figura di Rubé il disincanto dell’intellettuale, sottolineando soprattutto il dramma dell’omologazione quale fenomeno dominante nella società contemporanea.
Le pagine dedicate a Curzio Suckert Malaparte, oltre a raccontare la vita tumultuosa dello scrittore, caratterizzata dalla contraddittorietà delle personali scelte, ne rilevano il percorso tortuoso, a cominciare dalla giovanile partecipazione alla legione garibaldina quando nel 1914 (aveva 16 anni) andò a combattere nelle Argonne a sostegno della Francia
contro la Germania, sino agli eventi successivi che lo condussero a denunciare di tempo in tempo, velleità, illusioni dei “santi maledetti”, come dell’ “Italia barbara”.
Così egli – dopo aver accompagnato l’ascesa del fascismo – descrisse le operazioni concrete che avevano reso possibile la vittoria di Mussolini in Italia, come di Lenin in Russia, nel famoso saggio “Tecnica del colpo di stato” (1931), spiegando molto bene i particolari che avevano contraddistinto la conquista del potere da parte dei movimenti di “rottura” nei grandi eventi verificatisi in quegli anni. Chi scrive questa nota ebbe occasione di trovare nella piccola biblioteca paterna copia del libro nel testo originale francese, non ammesso allora in circolazione in Italia. Ebbene quel volume contribuì più di molti altri a far intendere esattamente come si erano svolti fatti determinanti nei momenti di trapasso del potere negli Stati moderni.
Da parte sua di Grado centra come l’impegno controverso di Malaparte, e nella sua intima contraddittorietà, svelava la capacità di penetrare nel sottosuolo del succedersi degli eventi storici tra sacrifici, morte e disperazione, sino poi, nel secondo dopoguerra, ad illustrare, con il trittico Kaput – La pelle – Mamma Marcia l’ epifania di singolari situazioni che hanno contribuito a scolpire ossessivamente il destino di controverse inclinazioni dell’ “Italiano” avvilito e sperduto nei meandri dei grandi conflitti. Nel primo di quei libri denunciava i caratteri delinquenziali della azione nazista contro gli italiani e nel secondo in particolare le violazioni alla dignità delle italiane da parte dei militari americani vincitori e divenuti padroni assoluti di intere aree italiane come nel Napoletano.
Veniamo poi a Guido Morselli che da a Il comunista ha saputo narrare con gusto e sottigliezza il paradosso angoscioso del dramma borghese (un altro suo titolo), che spiega anche il ripensamento su aspetti e momenti fondamentali della contemporaneità. Cito tra i tanti brani dei suoi scritti l’osservazione “in America gli uomini sono uguali: tutti uguali e soli”, nonché l’ “apocalittico” (nella definizione del di Grado) “Dissipatio” e l’ancor più fulminante richiamo all’Austria felix e a Musil.
E così si perviene al caso singolare di Walther Rathenau (lo sfortunato statista della Germania di Weimar) che nella sua azione politica seppe interpretare più di tanti politici la volontà rigeneratrice di una Europa vanamente protesa alla ricerca di un suo equilibrio. Mi sia consentita una breve estrapolazione: quando ho visto e ascoltato recentemente la prima volta Monti ho pensato proprio alla significativa e triste esperienza di quel grande “tecnologo” che aveva simboleggiato negli anni Trenta l’incontro tra un’anima “sobria” dello studioso e l’alta finanza germanica nel tentativo di realizzare un aggiornamento politico e sociale fondato sull’uso sempre maggiore della tecnologia.
Quarto protagonista del libro è Leonardo Sciascia, forse il più noto a tutti, scrittore siciliano, del quale vengono evocate le memorie che riconducono al contesto della “sofisticazione” mafiosa della morale tradizionale, un crocevia nel quale ancora è costretto ad attardarsi in Italia anche l’attuale stagione politico-istituzionale. Di Grado ne coglie gli aspetti pirandelliani nel sottolineare “la verità” non solo problematica ma dialogica, nella constatata perpetrazione del costante dominio trasformistico, nella società italiana. Ecco così soppesati momenti alti e determinanti della nostra cultura riferiti però ad un’Italia che oggi appare scomparsa.
Dei quattro autori, Sciascia è l’unico che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, e che ho apprezzato quanto più saliva contro di lui una campagna di invettive e falsità: perché egli – contro e meglio di tanti soloni – mi ha aiutato a capire cosa fosse veramente la mafia, malgrado le aporie dei suoi ragionamenti e di alcuni suoi scritti. Aggiungo che uno dei momenti più difficili dei miei viaggi “letterari” fu quando, nella Mosca di Gorbaciov, fui invitato in un incontro tra scrittori italiani e russi, a parlare non più del tanto esaltato realismo dei romanzi italiani ma di spiegare Todo modo, il film tratto dallo scrittore siciliano.
Ne ebbi persino una lode da intellettuali russi che si accingevano ad abbandonare il comunismo, ma mi resi contro del “vuoto” in cui erano venuti a trovarsi perché a me, in quanto “occidentale”, chiesero di spiegare loro cosa fosse l’anima, ed io risposi di averlo appreso proprio da un loro progenitore, Dostoevskij. E mi apparve strano che il senso di un testo complicato – e quasi incomprensibile – come quello di Sciascia, potesse essere utile per chiarire ad essi alcuni nodi della coscienza contemporanea nel momento in cui il loro paese cominciava ad aprirsi al libero dibattito.
Ho voluto qui congiungere i miei ricordi personali con la complessità delle opere dei quattro scrittori evocati nel libro, proprio per meglio sottolineare quanto abbia compreso e apprezzato l’attento e scrupoloso lavoro del meritorio autore del libro. Le mie preferenze per i quattro scrittori “divergenti” sono strettamente connesse con la mia personale formazione e la mia sensibilità comportamentale nella riflessione e nella repulsione degli autori di facile successo, esaltati dalla pseudo cultura diffusa dalla TV.