Nell’immediato dopoguerra il tema dell’Europa sul piano culturale ed istituzionale tornò d’attualità come già lo era stato negli anni ’20, prima del dilagare degli odi, delle carneficine, dei regimi totalitari. Ed è interessante rileggere oggi – mentre divampa proprio la crisi delle istituzioni europee con gli aspetti rilevanti delle conseguenze di scelte dannose per grandi massi popolari – un approfondito dibattito svoltosi a Ginevra in un “Rencontre Internazional” di cui il giovane Gianfranco Contini riferì dettagliatamente nell’allora prestigiosa “Fiera letteraria”. Il titolo del volume edito da Quodlibet è Dove va la cultura europea?
Erano presenti a quel singolare confronto letterati e studiosi appartenenti a diverse posizioni culturali, da Benda a Bernanos, a Flora e Jaspers e persino Lukacs. Così tra quest’ultimo – esponente tra i principali del marxismo – e l’esistenzialista (un modo di sentire ben prima di un’ideologia) Jaspers le differenze emersero subito con evidenza. Non poteva non riemergere in tale occasione la distanza tra i contrastanti modi di concepire l’organizzazione politica della società, in particolare ai fini della realizzazione della democrazia, nelle versioni degli intellettuali. Contini fa notare l’assenza del “pensiero italiano” (Croce – che forse avrebbe dato un contributo rilevante – aveva esposto “impedimenti fisici” per non recarsi a Ginevra). Non va dimenticato che molti esponenti della cultura italiana erano in quel momento estranei ai grandi dibattiti internazionali, e certamente a ciò non era estraneo il fatto che un ampio numero di poeti, scrittori e filosofi avevano “flirtato” sin troppo con il fascio, e ciò poteva rendere ambigua la partecipazione ad un dibattito che non poteva non riprendere – e così infatti è stato – il tema della politica senza più sottintesi e pregiudizi.
- Gianfranco Contini (Domodossola 1912)
Dopo aver rilevato “residui snobistici” nelle parole e negli atteggiamenti di alcuni degli intellettuali presenti, Contini rileva che oltre al ritorno in circuito delle distanze tra pensatori che si ispiravano all’irrazionalismo e sostenitori del razionalismo, gravava sul dibattito il significato dell’alleanza che si era determinata – dopo il breve flirt tra Hitler e Stalin – tra democrazie occidentali (formali) ed il comunismo sovietico. Daniela Giglioni, in una nota aggiunta, tiene a ricordare che Contini aveva vissuto l’esperienza della repubblica partigiana dell’Ossola, e quindi aveva una particolare sensibilità ai temi trattati, tanto più che prevalse nell’incontro una visione quasi “religiosa” del fenomeno “resistenza”, sia da parte dei comunisti “occidentali”, che degli esponenti dell’ufficialità marxista come appunto Lukacs. Il problema della “resistenza” come opposizione al dispotismo, non poteva far superare il tema delle sensibilità individuali di fronte al potere (come nell’esperienza, appositamente citata, espressa nel romanzo di Moravia “Gli indifferenti”). Si avvertiva comunque una crisi collegata con il peso di istituzioni che, nate in situazioni determinate, si erano mostrate inadeguate di fronte all’emergere di nuovi problemi, nati dalla tecnologia come dal ruolo esercitato dal mercato economico.
E tornavano anche i temi delle scienze in rapporto al “progresso”, come della “libertà”, rispetto ai mutamenti storici avvenuti o allora in corso. Non possiamo non osservare come nel 1946 non fosse largamente conosciuta, nel suo valore intrinseco, l’intuizione significativa ed originale del Manifesto di Ventotene che conteneva un tentativo di superamento dei nazionalismi – come del comunismo, aggiungiamo – da cui erano derivati orribili guerre e genocidi. Tra le poche personalità veramente impegnate per parlare eventualmente dell’unificazione europea vi era in Italia Einaudi, che però veniva considerato personalmente solo quale “tecnico” dell’economia, come se ciò inficiasse il valore culturale del pensatore. Infine da notare come accanto ai nomi e all’atteggiamento degli esponenti culturali presenti e menzionati si avverte, nello scritto di Contini, una sorta di difficoltà da parte di molti partecipanti all’incontro ad uscire dalla unilateralità delle posizioni, forse nel timore della “totalità” del pensiero che sembrava allora prevalente.