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Rubrica: CULTURA


Libertà (Feltrinelli, Milano, 2005 )

IL CONCETTO DI LIBERTA’ SECONDO I. BERLIN

di Isaiah Berlin
sabato 31 dicembre 2005 di Carlo Vallauri

Argomenti: Politica
Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Isaiah Berlin


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Libertà di Isaiah Berlin (Feltrinelli, Milano, 2005) è una fondamentale opera di uno dei più grandi filosofi politici europei del Novecento, curato da Henry Hardy. In questo libro è raccolto il testo della prolusione per l’anno accademico tenuta nel 1958 in Oxford quando l’A. pose la distinzione tra libertà positiva e libertà negativa, articolata nel percorso delle idee politiche universali insieme all’altro suo classico Quattro studi sulla libertà, in cui affronta in senso critico il determinismo, ponendo l’accento sulla preminenza delle fonti cognitive. La minaccia del totalitarismo è per Berlin il vero problema del secolo nel quale egli ha vissuto: nato in Lituania, in tempo per vedere lo scoppio della rivoluzione russa nel ’17, ha poi partecipato al dramma degli esuli trovando nella liberale Inghilterra il clima per portare i suoi studi al massimo livello della intelligenza europea. E c’è un punto di osservazione che egli pone al centro dell’attenzione. La svolta avvenuta nel partito dei social-democratici russi in esilio quando nel 1903 si affermò il criterio del primato assoluto del partito, di un partito rivoluzionario giacobino d’elite formato da quadri fortemente coesi. Ogni altra considerazione cadeva: per l’organizzazione politica la “verità” diveniva la convenienza politica del potere da conquistare e mantenere. Tutto il resto era annullato. Questa logica - egli ha sostenuto tenacemente - ha forgiato il nocciolo del partito comunista di Lenin, disposto a tutto pur di assicurarsi il controllo del dominio politico: da quel momento ha origine - a suo avviso - il totalitarismo contemporaneo ben più duro di qualsiasi tirannia precedente perché fondato sull’assoluta necessità per i sudditi di interiorizzare valori e volontà del gruppo dirigente, una identificazione che porterà alla mortificazione degli esseri umani, all’avvilimento e alla distruzione dei diritti. Non a caso le sue osservazioni saranno al centro dell’attenzione di Hannah Arendt e di quanti altri hanno studiato i caratteri delle varie forme di totalitarismo.

Dal concetto di “inevitabilità storica” egli ha tratto una lettura originale della storia del XIX secolo, denunciando le molteplici manipolazioni mirate a imporre una obbedienza privata di ogni capacità dialettica. La libertà non vista solo come assenza di ostacoli al suo esercizio, ma come una scelta maturata nell’autodeterminazione personale, in sintonia con i concetti kantiani. Naturalmente egli fa risalire questo modo di intendere la realtà effettuale ad una visione politica fondata sull’interiorità della vita morale e quindi sulla scorta delle elaborazioni dei grandi pensatori greci. Ma la conoscenza libera - e ne è testimonianza la sua stessa esistenza di esule e di scrittore -è il presupposto per ogni svolgimento della facoltà di pensare, base di ogni libertà. Costanti sono i richiami a pensatori dell’Ottocento come Benjamin Constant e John Stuart Mill, i quali avevano posto le premesse per una libertà delle istituzioni statuali. Quindi nasce la partecipazione dei cittadini al governo quale rivendicazione dell’esigenza di assicurare “una sfera di libertà intangibile” che consenta lo sviluppo della piena indipendenza personale, vissuta nell’autodeterminazione contro ogni forma di coercizione. Il peso dello Stato forte che da autoritario diviene moloch assoluto in nome di un principio astratto viene denunciato come un prodotto della società avviata alla sua dissoluzione in concomitanza, con l’annullamento delle personalità individuali. Il prezzo che abbiamo pagato attraverso quelle terribili lezioni ha condotto al riconoscimento del pluralismo dei valori, piattaforma sulla quale si costruisce oggi una libertà vivente per quanti sanno e riescono a realizzarla. Una lettura d’eccezionale spessore.

 

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