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AFROAMERICANI TRA TRUMP E IL KU KLUX KLAN

USA: 500 anni di esclusione della popolazione nera.
domenica 1 ottobre 2017 di Marcella Delle Donne

Argomenti: Attualità
Argomenti: Mondo
Argomenti: Razzismo


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Gli afroamericani rappresentano il 13% della popolazione statunitense, circa 42 milioni su 323 milioni, eppure i giovani neri uccisi per mano della polizia sono molte volte superiori ai bianchi. Nel 2015 le violenze e le morti ingiustificate dei neri da parte della polizia sono cinque volte superiori a quelle dei bianchi. Nei primi sette mesi del 2016 si contano 136 vittime di giovani afroamericani, ammazzati dalla polizia senza una palese colpa o trasgressione (Il Manifesto, 9 settembre 2016).

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Micah Xavier Johnson
autore della strage di 6 agenti a Dallas 8 luglio 2016

Dopo l’ennesima uccisione di due giovani neri, disarmati e inermi, da parte della polizia, un afroamericano, Micha Xavier Johonson, riservista dell’esercito USA, sconvolto dall’odio razziale nei confronti dei cittadini neri, abbatte a Dallas l’8 luglio 2016 cinque poliziotti, durante la manifestazione di protesta degli afroamericani. Orrore e riprovazione. La reazione dei media si riassume come segue: “L’atto razzista di un afroamericano contro la gente bianca”, rovesciando completamente l’interpretazione della situazione di violenza contro i cittadini neri che si registra negli USA da parte della polizia e non solo.

Ad accentuare la responsabilità dei neri, stigmatizzandoli di razzismo contro i bianchi, interviene Trump, allora candidato conservatore per la presidenza, che fa perno sul tema della “identità bianca”, dipingendo in termini razziali il declino della middle class americana, come fosse un impoverimento causato dall’ “ascesa di quegli ALTRI”, neri e ispanici.

In questa prospettiva, e nel clima verificatosi dopo Dallas, chi viene considerato responsabile principale, secondo l’opinione diffusa in particolare tra i repubblicani? Naturalmente un altro afroamericano, Barack Obama, che “ha fallito la missione di riappacificazione tra bianchi e neri, come ha fallito l’obiettivo promesso in campagna elettorale di controllare la vendita e l’uso delle armi”. Questa è l’accusa di Donald Trump.

Per mesi Trump, durante la sua campagna elettorale, lancia un messaggio “Obama è nato in Kenya, per legge non può essere Presidente degli USA”. Menzogna spudorata che verrà smentita, ma conserverà un ampio seguito nella destra radicale.

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Luisiana 10 luglio 2016
Ieshia Evans davanti agli agenti a Baton Rouge

L’odio razziale nei confronti dei cittadini USA neri e del Presidente che li rappresenta, Obama, si manifesta nell’aumento esponenziale della violenza e delle morti per mano dei cops (poliziotti) nei confronti dei neri durante la presidenza Obama, violenza che culmina con l’ennesimo omicidio, il 6 luglio 2016, a Baton Rouge, di un cittadino nero, venditore ambulante di cd, padre di cinque figli, inerme e disarmato, che viene abbattuto da due poliziotti. L’evento viene filmato: gettato a terra e freddato da sei colpi di pistola, così come si evidenzia dalla ripresa in video. E’ la goccia che fa traboccare il vaso.

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Washington 8 luglio 2016
Marcia dei Black Lives Matter - Stop killing us
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San Francisco, 8 luglio 2016
Denuncia delle uccisioni da parte della polizia

I cittadini neri, con un corteo pacifico di risposta, mostrano la consapevolezza che l’odio razziale nei loro confronti esprima la volontà di annientamento della popolazione nera negli Stati Uniti. E’ significativa l’immagine di una ragazzina che al corteo porta sulla guancia la scritta “Stop kill us” (“Non uccidetici”); significativa perché l’odio razziale nei confronti dei cittadini afroamericani non si manifesta solo con la violenza armata della polizia, ma con la violenza sistematica di cittadini bianchi organizzati in truppe paramilitari, con la svastica, lasciati indisturbati nelle loro violenze contro i cittadini neri, nella convinzione che le vite dei neri “don’t matter” - non abbiano importanza.

Nel 2013, quando un poliziotto viene prosciolto dall’accusa di omicidio di un giovane nero di diciassette anni, Martin Tragvan, disarmato e innocente, un gruppo di afroamericani crea un movimento utilizzando lo slogan “Black Lives Matter”. Il movimento raccoglie una grande quantità di adepti, i quali puntano il dito contro l’omicidio di membri della comunità afroamericana da parte della polizia. Il “Black Lives Matter” è attivo nella rivendicazione dei diritti civili e nella lotta alle discriminazioni razziali negli USA.

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DeRay Mckesson
viene bloccato dagli agenti durante le proteste

A differenza delle fondatrici Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi, radicali nella presa di distanza dallo Stato, il movimento è oggi rappresentato e condotto da Mickesson De Roy, ex professore di matematica, che ha intrapreso la strada del confronto con il potere, a cominciare dal Presidente degli Stati Uniti: “la pressione per un cambiamento”, egli dichiara, “deve essere esercitata su entrambi i fronti: quello esterno, attraverso proteste e mobilitazioni spontanee, e quello interno, occupando posizioni di potere nelle istituzioni”. Per questo, nell’aprile 2016, Mickesson si candida a sindaco di Baltimora (non viene eletto), una città di 600.000 abitanti dove nell’anno 2015 ci sono stati 344 omicidi, di cui il 90% ha riguardato cittadini neri tra i 18 e i 30 anni.

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Percival Everett

Tornando a Dallas, non è dissacrante interpretare il massacro di cinque poliziotti come la reazione di un giovane afroamericano, la cui mente è scoppiata in preda al furore per i maltrattamenti, il disprezzo per la propria gente, per i continui assassinii di giovani cittadini neri inermi e innocenti. Scrive Perceval Everet, una delle voci più autorevoli della letteratura afroamericana “Tutte le vite hanno valore. Tutte. Ma non possiamo dimenticare che, se la follia di un singolo ha ucciso cinque poliziotti, una brutalità assurta a sistema ha ucciso centinaia, migliaia di cittadini neri. Siamo un obiettivo. Dobbiamo altresì considerare che se quest’uomo ha avuto la possibilità di procurarsi un fucile lo deve ai repubblicani e alla lobby delle armi.”

L’accusa a Barack Obama di essere responsabile, secondo Trump, di aver fallito l’obiettivo di ricomporre il conflitto tra bianchi e neri, come quello di controllare la vendita e l’uso delle armi, merita un approfondimento chiarificatore. Cominceremo ad analizzare la seconda delle accuse.

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Barac Obama presidente USA dal 2009 al 2017

Obama, nel 2014, dopo l’ennesimo omicidio di un giovane afroamericano innocente, Michael Brown, nomina una commissione per indagare la militarizzazione della polizia e riesce a bloccare i fondi federali usati da parte dei corpi della stessa per l’acquisto di veicoli corazzati, fucili di grosso calibro e uniformi mimetiche. Certo, questo è stato un deterrente, se non fosse che restano a disposizione della polizia, le risorse dei singoli stati e delle amministrazioni locali che hanno normative in proposito tra le più permissive d’America. Inoltre, i cospicui fondi destinati alla polizia, i proventi della Homeland Security, come quelli dello stesso Pentagono, hanno contribuito a rendere molti uffici degli sceriffi di contea del tutto simili a piccole guarnigioni delle forze amate.

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Eastern Kentucky University

La Scuola di Studi sulla polizia dell’Università del Kentucky Orientale ha documentato come centinaia di Dipartimenti delle forze dell’ordine si siano dotati, nel corso degli ultimi decenni, di veri e propri corpi paramilitari, in grado di scegliere quali armi e quale tipo di addestramento seguire. L’industria degli armamenti, che negli USA rappresenta il 51% dell’intera produzione industriale, ha puntato molto su questa tendenza, riciclando sul mercato interno armi e mezzi non più utilizzabili sui teatri di guerra. Dal 2006 ad oggi qualcosa come 432 veicoli blindati, 533 aerei ed elicotteri, oltre a 90.000 armi automatiche sono passate direttamente dalle mani dei militari a quelle degli agenti di polizia: un arsenale in grado di trasformare in tutto e per tutto le ronde in un ghetto nero, in un pattugliamento dei marine a Baghdad (Guido Caldiron, Il Manifesto, 9 luglio 2016).

Per quanto riguarda l’altra accusa di Trump a Obama, di non essere riuscito a sanare la contrapposizione tra bianchi e neri, dobbiamo considerare il modo di pensare di molti americani bianchi: gli afroamericani sono degli inferiori, la loro storia di ex-schiavi ne determina l’inferiorità e ne giustifica lo stigma da parte dei bianchi. L’elezione di Obama a Presidente USA, un afroamericano, è sembrata una svolta epocale nella cultura e rispetto ai neri. Il 4 novembre del 2008 Obama aveva creduto di aver cambiato la storia con la sua elezione: “Questa sera – aveva detto – grazie a quello che abbiamo fatto in questa elezione, assistiamo a un momento che definirà la storia americana. Il vento del cambiamento si è alzato”. Alla fine del suo mandato Obama lascia la presidenza con un dubbio, segnato sul viso, a Dallas, di essere stato lui il catalizzatore e la causa della guerra in bianco e nero.

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Donald John Trump eletto presidente USA il 4 novembre 2016

La prova che tutto è possibile in America, il meglio come il peggio. (Vittorio Zucconi, La Repubblica, 13 luglio 2016). Forse, non è azzardato pensare, che un afroamericano alla Casa Bianca abbia risvegliato le peggiori pulsioni razziste in certe fasce della popolazione bianca. Con l’elezione di Obama il sogno di raggiungere un’uguaglianza tra bianchi e neri è sembrato avverarsi. Così hanno creduto Obama e la popolazione afroamericana; ma l’abisso che per quattro secoli di schiavismo ha separato bianchi e neri, ha spaventato l’opinione pubblica americana e le istituzioni intrise di razzismo. La conseguenza è stata contraria alle premesse. L’opinione pubblica e le istituzioni razziste, invece di prendere l’iniziativa di una riconciliazione, hanno preso la strada del fucile, cosicché “le pallottole hanno continuato a volare come hanno fatto da secoli di schiavitù, linciaggi, segregazioni, razzismo” (A. Portelli, Il Manifesto, 8 agosto 2016).

Le stesse violenze della polizia, insieme con il successo di Trump, che discende in via diretta dal Tea Party (movimento bianco al 99%), e non ha mai rinnegato gli appoggi ricevuti dal Ku Klux Klan sono il segnale dell’acuirsi del conflitto (Federico Rampini, la Repubblica, 9 luglio 2016).

La rabbia per l’offesa di un Presidente afroamericano al potere ha aumentato l’insofferenza nei confronti dei cittadini afroamericani. Sia i bianchi revanscisti che la polizia non hanno sopportato che gli ex schiavi possano essere considerati alla pari con i bianchi e assurgere a posizioni di potere.

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Ku Klux Klan
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Ku Klux Klan

Situazione vissuta come un insulto. L’attacco di Trump a Obama durante la sua campagna elettorale ha mirato a convogliare le simpatie di quella parte dell’elettorato americano ostile agli afroamericani – “gli ALTRI”. Di fatto, Trump si è posto a fianco dei nostalgici dei tempi della Grande America, pre-guerra civile, e del segregazionismo, i Sudisti. Non a caso, il maggior numero di votanti di Trump si trovano, infatti, al Sud. Tutti gli stati più poveri e arretrati degli USA: Arkansas, Mississipi, Delta della Louisiana, Alabama, Kentucky, dove massima è la concentrazione di revanscismo anti-nordista.

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Croce d Santandrea Bandiera degli stati confederati sudisti

E’ facile, ancora oggi, avvistare lungo le strade cartelli che inneggiano alla caccia ai “coons”, ai procioni, slang per neri, ed essere sorpassati da pickup con la bandiera di Sant’Andrea, il vessillo dei ribelli e la rastrelliera per il fucile nel lunotto. (Vittorio Zucconi, La Repubblica, 18 Agosto 2017).

Con la sua elezione a Presidente, Trump diventa il leader del “Birther Movement”, il movimento che contesta il luogo di nascita del Presidente. Il messaggio subliminale va diretto ai suprematisti bianchi, al K.K.K. (tristemente noto per i linciaggi degli “incappucciati” contro i neri), ai Sudisti nostalgici dell’America pre-guerra civile e del segregazionismo. Un afroamericano alla Casa Bianca non può che essere un “alieno”, uno straniero, un usurpatore che ci porta via la “nostra” America, per governare in favore di “quelli là”. E’ da questo momento che la destra razzista, estremista, fino ai filonazisti, si incolla a Trump con una fedeltà assoluta. Davide Duke, capo del Ku Klux Klan, attraverso Twitter, lancia un post a Donald Trump: “Guardati bene allo specchio e ricordati che sono stati i bianchi americani a farti Presidente”.

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Birther Movement

Trump, eletto Presidente degli USA, non delude l’estrema destra, e nomina come suoi consiglieri Stephen Bannon e Steve Miller, già visibili nell’entourage durante la campagna elettorale. Il primo, Bannon, noto esponente della cosiddetta alt-right (destra radicale), è direttore del sito di estrema destra Breitbart, formidabile macchina di guerra della propaganda reazionaria, disseminatrice di falsità e calunnie, implacabile nel demolire gli avversari (F. Rampini, La Repubblica, 20 agosto 2017). Miller è noto per i suoi contatti con i suprematisti bianchi.

Il progetto di governo di Trump si condensa nel suo slogan “America The First”, e si esprime nei suoi primi provvedimenti: muraglia alla frontiera con il Messico, chiusura delle frontiere ai cittadini di sette paesi islamici, cacciata degli Ispanici, volontà di allentare il sostegno all’Alleanza Atlantica.

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America First

Lo slogan di Trump “America The First”, non include tutti i cittadini americani, (escludendo i neri), ma quella parte rappresentata dal cosiddetto Wasp (White, Anglosaxon, Protestant) e a quanti bianchi europei si identificano in questo termine. E’ importante, in tal senso, mettere a fuoco la collocazione dei diversi gruppi di popolazioni, cittadini degli Stati Uniti d’America. Gli indiani americani, gli afroamericani, gli ispanici e i gruppi di origine asiatica hanno molta più difficoltà di inserimento e sono definiti in termine di razza; per i discendenti degli immigrati europei la situazione è molto diversa. I gruppi europei, nel corso del tempo, hanno acquistato gli stessi valori e gli stessi obiettivi dei wasp e hanno assimilato una lingua, una cultura, adeguandosi a una forma di governo e a una organizzazione istituzionale, ecc…, quali espressioni ufficiali dell’identità del paese e della propria. Da questo punto di vista gli Stati Uniti rappresentano l’esempio di un sistema sociale basato sulle differenze, dove le categorie, gruppo etnico e razza, hanno avuto dei significati specifici e differenziati lungo il continuum in cui si collocano i gruppi.

I gruppi di immigrati provenienti dall’America Latina, di lingua spagnola e di religione cattolica, mostrano una forte resistenza all’assimilazione. Essi mantengono vive identità culturali ed etniche all’interno e all’esterno della comunità, al punto che la spagnolo è diventato la seconda lingua ufficiale dopo quella inglese. E’ questo un segnale di cambiamento verso una maggiore partecipazione alla gestione del paese? Ancora una volta, le variabili chiave sono razza e potere. Osserva a questo proposito Eriksen (T.H. Eriksen, Ethnicity and Nationalism, 1993): “Di fatto la maggioranza ha il potere di decidere quando una minoranza può essere simile a se stessa e quando deve restare diversa. Molto spesso, a delle élite potenziali, è negato il diritto di essere differenti, mentre nelle classi subalterne è negato il diritto di essere uguali”.

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S. Steinberg, The Ethnic Myth, 1981

E ancora Stephen Steinberg, un critico degli studi sulle minoranze etniche in America, afferma: “Gli immigrati (dall’Europa) erano disprezzati per le loro peculiarità culturali. In questo disprezzo vi era un esplicito messaggio: “Voi diventerete come noi, che vi piaccia o no”. Ma quando è rivolto alle minoranze razziali, come gli afroamericani, il messaggio sottointeso suona: “Per quanto voi siate simili a noi, voi rimarrete differenti”. (S. Steinberg, The Ethnic Myth, 1981). Queste considerazioni su gruppi ritenuti razze, come gli indiani americani, gli afroamericani, gli ispanici e i gruppi di origine asiatica, approfondisce e aggrava le divisioni della società americana. (M. Delle Donne, Convivenza civile e xenofobia, 2000).

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North Carolina 15 agosto 2017
Abbattute una statua in onore di soldati confederati.

Dopo Baton Rouge l’esasperazione degli afroamericani si sfoga con l’abbattimento delle statue e dei monumenti che celebrano i confederati, eroi del Sud segregazionista della Guerra Civile americana, statue di generali come Robert Lee, i quali, durante la Guerra Civile, si sono battuti per mantenere lo schiavismo. I sindaci di tante città, da Charlotteville a Baltimora, per paura della distruzione dei monumenti, ordinano la rimozione delle statue, che a migliaia sono disseminati sul suolo statunitense. Contro queste rimozioni delle amministrazioni locali, scende in campo Trump: “E’ triste vedere la storia e la cultura del nostro paese fatta a pezzi. Chi abbatte le statue distrugge la nostra storia”, sentenzia Trump, dimostrando, ancora una volta, di stare dalla parte della destra estremista. Per i suprematisti bianchi e per il Ku Klux Klan il messaggio sottende un’incitazione all’azione, è il via libera alla violenza sistematica di gruppi paramilitari e con la svastica.

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La galassia della supremazia dell’odio

La scusa per la mobilitazione di incappucciati e neonazisti è determinata dalla decisione del comune di Charlotteville di togliere la statua di Robert Lee, il generale che guidava la Guerra di Secessione dei Sudisti, da un parco in mezzo alla città, ribattezzato “Emancipation Park”. Il generale è da sempre un simbolo della destra estremista americana. Di qui la manifestazione “Unite the right” (Unità della destra), indetta da Duke, da Richard Spencer e dagli altri gruppi. A Charlotteville affluiscono da tutta l’America le milizie dell’estrema destra: suprematisti, Ku Klux Klan e neonazisti: “Siamo qui per mantenere le promesse di Donald Trump e riprenderci il paese” dice Davide Duke, ex “mago imperiale” degli incappucciati del Ku Klux Klan, guidando a Charlotteville, nella Virginia, il 13 agosto 2017, la più grande e più violenta manifestazione di estremisti di destra, venuti da ogni parte dell’America. La manifestazione assume subito un carattere di confronto, di rivincita, e, in parte, anche di sostegno alla Casa Bianca. I militanti hanno il casco in testa, le bandiere con la svastica, le spranghe e non pochi cartelli che inneggiavano a Trump. Qualcuno grida “Heil Hitler”. (Arturo Zampaglioni, la Repubblica, 13 agosto 2017).

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Charlottesvile Virginia 13 agosto 2017
Manifestazione degli estremisti di destra
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Charlotteville - fiaccolata
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Charlottesville
Auto contro il corteo antifascista

Gruppi estremisti, arrivati in massa a Charlotteville, cominciano le violenze. Una contromanifestazione formata da bianchi democratici e afroamericani viene brutalmente aggredita. Un’auto guidata da Alex Fields Jr, giovane della destra estremista, viene lanciata sui manifestanti, uccidendo tre persone e ferendone altre sette, sul modello dei terroristi dell’Isis. Di fronte alla gravità dell’accaduto e alla brutalità delle violenze, il capo della Casa Bianca, sabato condanna le violenze, e fa le condoglianze via twitter alle vittime; però non cita espressamente i suprematisti bianchi e richiama le responsabilità dividendole tra più parti. Trump mette in sostanza sullo stesso piano i neonazisti e i loro oppositori. Questo provoca dure reazioni all’interno dello stesso partito repubblicano, dove diversi senatori come Gardner, McCain, Hatch, hanno criticato l’indecisione del Presidente.

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New York City 13 agosto 2017
Il regime di Trump deve finire!

Rispetto alla posizione “neutrale” del Presidente, si verifica una presa di distanza dei vertici militari (l’esercito è una macchina di integrazione razziale, tanto che ha avuto come capo supremo l’afroamericano Colin Pawell, ai tempi di Bush padre); tra coloro che prendono le distanze da Trump ci sono i top manager industriali, i quali si dimettono dagli incarichi di consulenza per la Casa Bianca. Lo stesso sito Drudgereport, sempre schierato con Trump, fa un titolo in cui usa lo slogan della campagna presidenziale di Trump, “Make America Great Again”, trasformandolo in “Make America Hate Again”.

Trump, isolato e furioso, da una parte si consola ascoltando solo news gestite dalla nuora che trasmette notizie dalla tv della Trump Tower, di proprietà di Trump, notizie celebrative e trionfanti sulla presidenza Trump; dall’altra, già dal suo primo insediamento alla Casa Bianca, Trump mostra i muscoli del suo potere in senso militare, di contro all’uso della tattica e della diplomazia del suo predecessore: aumento del contingente militare in Afghanistan, bombardamenti sulla Siria.

Nel suo primo discorso all’Onu, dichiara di essere pronto a scatenare la guerra nei confronti della Corea del Nord. L’atteggiamento di Trump, incline all’uso del “hard power” in materia di politica estera, è sollecitato anche dai generali, tra i quali il generale Kelly. I generali mirano a soppiantare i fedelissimi della prima ora, con se stessi. Il primo a cadere è Bannon, che critica Trump per il lancio di 159 missili Tomahawh contro le forze di Bashar al Assad, in Siria, e ridicolizza apertamente in una intervista l’“opzione militare” in Corea del Nord. E’ l’occasione per il cambiamento dello staff presidenziale alla Casa Bianca.

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Steve Bannon

Steve Bannon, il “fascista isolazionista”, viene cacciato. Kelly, che della cacciata è stato il regista, si adopera per l’epurazione di altri fedelissimi. Di fatto, si assiste a qualcosa di simile a un golpe di palazzo. La “giunta militare” prende il posto degli estromessi, Trump è consenziente ed eleva al potere il trio: Kelly, (Capogabinetto), McMaster (National Security Council), Mattis (Difesa).

Di fronte a questa ascesa della “giunta militare”, molti moderati in USA e nel mondo hanno pensato che la presenza dei generali nei posti di potere sia un segnale rassicurante, preludio a un Trump 2 più stabile, meno erratico, più prevedibile. Quel che nessuno forse ha messo in conto è l’ovvietà: i generali studiano come fare le guerre. La partenza di Bannon può aprire la strada a una politica estera più tradizionale, nel senso della riaffermazione dello “hard power”, la forza delle armi come pilastro della leadership americana. (Federico Rampini, la Repubblica, 20 agosto 2017).

Sul fronte interno Trump rafforza il potere di intervento delle forze dell’ordine, per arginare il movimento afroamericano e gli antifascisti, che a migliaia scendono in piazza contro i suprematisti e la destra radicale. Agli Stati Uniti servono “legge e ordine”, sentenzia Trump, decidendo di armare la polizia come in guerra: blindati e lanciagranate in strada, oltre a tutto l’armamentario di cui abbiamo già detto. Se consideriamo che in molti stati di America c’è la libertà del porto d’armi pesanti, anche in strada, sembra adombrarsi lo spettro di un conflitto civile.

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Isabelle Willkerson

Come dice Isabelle Willkerson, afroamericana, prima reporter nera a vincere il premio Pulitzer nel 1994, “La mia impressione è che gli afroamericani si sentano come cento anni fa: indifesi, in balia della violenza omicida dei segregazionisti. Qui c’è un’intera società che deve assumersi la responsabilità di reagire alle ingiustizie verso altri esseri umani, a prescindere dal colore della loro pelle. Anche grazie ai social, oggi, nessuno può dire di non sapere. I pestaggi, le uccisioni di persone innocenti, sono ormai sotto gli occhi di tutti. Se non fai qualcosa per fermare la violenza, diventi parte di quel processo violento. Ne sei responsabile”. (la Repubblica, 9 luglio 2016).

Resta la speranza indotta dalle migliaia di bianchi americani che scendono in molte piazze delle città statunitensi a fianco degli afroamericani. Manifestazioni antifasciste si susseguono, organizzate dai bianchi americani, che partecipano alle veglie degli afroamericani per i cittadini di colore, caduti per la sola colpa di essere neri, da Boston a San Francesco, da Minneapolis a Baton Rouge. Cittadini bianchi e neri insieme, che accendono le notti di lumini e di cortei per difendere le “Black Lives”, le vite degli afroamericani. Resta la speranza delle manifestazioni che vedono cento suprematisti da una parte e mille, mille e più cittadini bianchi accanto agli afroamericani.

Si interroga l’autrice, a conclusione di quando sopra esposto: ’Gli USA assurgono a modello mondiale di paese democratico, che persegue, tra gli obiettivi sanciti dalla Costituzione, il raggiungimento della felicità. Domanda( Urbi et Orbi): E’ questo  Il migliore dei mondi possibili? (Vedi Leibniz e Voltaire).

 

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