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Liliana e Michele

Un amico è uno che sa tutto di te, e nonostante questo ti ama. E. Hubbard
lunedì 12 settembre 2011 di Michele Penza

Argomenti: Ricordi


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Mi capita talvolta di passare per via delle Fornaci e quando il tassì giunge all’altezza dell’ultima traversa a sinistra prima dell’Aurelia e del colonnato del Bernini l’occhio mi va sempre alla facciata barocca di una chiesa. Sono passati più di cinquanta anni da quella mattina ma il ricordo è sempre vivo, è ancora quello del giorno lieto in cui Cristoforo, l’amico mio più caro, finalmente si sposava con Liliana, una gran bella ragazza, l’unica di cui si fosse mai innamorato.

Con lui ci volevamo bene come è possibile fra amici solo quando si é molto giovani e si sente di avere tante cose in comune. Compagni di scuola fin dalla prima media, siamo cresciuti l’uno nella casa dell’altro ed erano poche le cose che in tanti anni non ci fossimo confidato. Ricordo che un giorno capitai in casa sua e li trovai agitati perché non si trovava il libretto degli assegni. Suggerii di guardare in un certo posto, e il libretto era lì: io ci passavo ore in quella casa e mi era capitato di assistere al momento in cui qualcuno ce l’aveva messo. Sua madre mi guardò allibita. “Non ho parole, mi disse, comunque meno male che ci sei!

Eravamo in tre quel giorno sulla soglia della chiesa, l’uno accanto all’altro, ad attendere la sposa: lo sposo, il colonnello Masucci suo padre e c’ero anch’io che per l’occasione m’ero perfino messo la cravatta, poiché il mio ruolo di testimonio non era mai stato in discussione. Gli altri invitati seduti ai banchi cominciavano a dar segni di nervosismo, che l’ora della cerimonia era trascorsa e i minuti passavano senza che si vedesse traccia di Liliana, che pure stava di casa a trenta metri. Cristoforo un po’ teso e un po’ ironico (mi sa che s’é scordata!) mi disse di andare a vedere che succedeva e in tre salti fui alla porta di casa di Liliana che trovai aperta. Entrai in anticamera dove non c’era nessuno e per farmi sentire posi ad alta voce la domanda più idiota che nella circostanza potessi fare: “Ehi di casa, c’è Liliana?

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Via delle Fornaci

Come se in quel giorno e a quella ora Liliana fosse potuta andare a spasso o a comprare il latte. Dalla sua camera mi giunse la sua voce calma: “Sono qua Michele, arrivo. Non trovavo i guanti.” “ Dai Lilià che stiamo tutti in pena. Che ti frega dei guanti, sposati senza guanti!” “ Ma no, li ho trovati, li sto allacciando, diglielo che vengo.” Liliana era così, non si scomponeva mai. Cominciò così in quel modo così placido e informale la vita coniugale dei miei amici più cari che purtroppo non portò loro sul piano degli affetti e della felicità, se non per breve tempo, tutti quei doni che in quel giorno gli auguravamo.

Lui si era appena laureato e dopo un breve apprendistato presso lo studio legale Faraci in via Quattro Fontane e una breve esperienza giornalistica in una rivista giovanile, ‘la Campana’, organica al movimento culturale di ‘Comunità’ fondato e sostenuto dall’industriale-filosofo Adriano Olivetti, che allora frequentavamo, aveva trovato un buon posto presso la Reale Mutua Assicurazioni. All’università aveva conosciuto quella splendida ragazza, più grande di un paio d’anni, che allora rappresentava l’oggetto del desiderio di molti ma inaspettatamente lui, che peraltro era un bel ragazzo simpatico e brillante, era riuscito a prevalere su un buon lotto di concorrenti. A fatica era riuscito a farsi accettare anche dalla famiglia di lei, che avrebbe preferito un soggetto meno giovane e più affermato professionalmente.

Per fortuna quando Liliana annunciò di aspettare un bimbo Cristoforo aveva già trovato il lavoro e quindi furono conclusi in fretta i preparativi delle nozze e sedati anche i brontolii dei quattro genitori, ai quali restò forse un po’ di amaro in bocca, sia a quelli di Liliana per il fatto che allora lo sposarsi incinte non era proprio il massimo del bonton e non veniva ostentato urbi et orbi come si fa oggi, che a quelli di lui che avevano ricevuto la sensazione di una forzatura del figlio per costringerli ad accettare nello stato di necessità la sua richiesta di essere ospitato da loro. Niente di eccezionale, si sa che qualche malumore in famiglia c’è sempre in queste situazioni e va superato, quindi la loro vita coniugale iniziò ugualmente nonostante queste piccole contrarietà nel segno di un amore forte e reciproco, sostenuto in entrambi da una altrettanto forte determinazione.

Quando la loro storia si concluse tutto quell’amore già da anni non esisteva più. Forse gli Dei invidiarono la loro felicità perché cominciarono presto a bersagliarli. Il bimbo che aspettavano venne alla luce morto, non so per quale ragione, ma ricordo che per estrarlo dal corpo della madre dovettero farlo a pezzi. Una esperienza dolorosa per lei e traumatica per tutti e due, ma per fortuna appena un anno dopo arrivò Angela, una bambina splendida. Talvolta uscivamo insieme e volevo sempre essere io a portarmela in braccio. Era oggetto di complimenti e di ammirazione e confesso che ne ero orgoglioso come fosse stata una creatura mia.

Per due o tre anni vissero dunque in casa dei genitori di lui, che oltre ad Ettore, suo fratello minore, già ospitavano la sorella con Tonino, il giovane medico che era suo marito. Un certo affollamento che talvolta generava un po’ di nervosismo, normale in una casa dove girano tre donne per la cucina. Quando fu assegnata a Cristoforo la direzione dell’agenzia di Ancona la famigliola si trovò una casa a Palombina e vi si trasferì. Entrambi lasciando Roma per un ambiente così diverso avevano qualche rimpianto ma la novità del lavoro e la prospettiva di una vita familiare più intima e raccolta li coinvolse. Ci allontanammo così per alquanto tempo. Allora non c’erano i cellulari e anche del telefono normale si faceva un uso più limitato. Le interurbane erano un po’ come i telegrammi, si usavano per comunicazioni urgenti e necessarie. Ci vedevamo, con rinnovato piacere, alle feste di fine d’anno che loro venivano a trascorrere in famiglia a Roma.

La notizia me la diede Norma, la madre di Cristoforo, e al momento non ne realizzai appieno il significato. Liliana era in ospedale per un distacco di retina, che a quei tempi comportava oltre all’intervento anche il bendaggio e l’immobilità assoluta in letto per un mese. Sembrò a noi un fatto episodico, iniziava invece la fase in cui si manifestò la malattia degenerativa della retina che avrebbe reso Liliana pressoché cieca negli ultimi tempi della sua vita. Dopo alcuni anni ad Ancona Cristoforo fu richiamato alla sede di Roma. Ci vedevamo abbastanza spesso e ci frequentavamo soprattutto in estate quando tutta la sua famiglia andava a passare un mese ad Anzio. Mi sembrò che fra loro due ci fosse una certa freddezza e notai in entrambi una tendenza all’alcool. “Sai Ancona era umidissima d’inverno e lì il freddo non scherza. Ti serve un po’ di calore!”

Sarà! Intanto era arrivato Ernesto, il secondo bambino. E pure il secondo distacco di retina. In Cristoforo cominciai a rilevare taluni segni di insofferenza, e nei suoi familiari colsi un senso quasi di risentimento nei confronti di Liliana, sembrava di sentire gente che ha comprato per posta e ricevuto merce avariata, se mi si consente il paragone. Il trasferimento alla sede di Milano fu accolto con favore da tutti perché interveniva in una atmosfera di crescente freddezza e di sopportazione. A Milano ci rimasero molti anni. I ragazzi vi crebbero e divennero adolescenti, milanesi di mentalità e di formazione, mentre i genitori rimasero inguaribilmente romani all’estero. Cristoforo a Milano non seppe adattarsi mai: non era il suo clima, non era il suo mondo, gli mancavamo noi, i suoi amici. Quando d’estate veniva a passare un mese a Roma ci chiamava e ci riunivamo in quattro, con Remo e Franco, gli altri del nostro gruppo. Capivo quanto per lui queste rimpatriate fossero importanti e come soffriva nel sentirsi lontano ed escluso.

In realtà quel tempo andato e l’ambiente nostro che lui tanto rimpiangeva e desiderava ritrovare per noi non esistevano più da molto tempo, perché ci sforzavamo di ricrearli solo quando lui veniva a Roma ma per tutto il resto dell’anno ciascuno era preso dalle sue occupazioni. Cresceva dunque la sua nostalgia e purtroppo anche il suo consumo quotidiano di alcool. Ne chiesi una volta la ragione a sua madre, cosa ne pensasse. “Lui dice che a Milano fa freddo, ma il freddo ce l’ha nel cuore. Non capisci che è infelice?” Capii meglio quando in uno di quei colloqui estivi lui mi disse in tono indifferente: “Liliana ha la sclerosi multipla. Non abbiamo alcuna prospettiva. Non c’è un problema di terapia, deve solo convincersi ad accettare la sua invalidità.” Poi riprese a parlare d’altro, come se l’argomento l’annoiasse.

Mi resi conto che la diagnosi della madre era giusta, quel grande amore era finito. Cristoforo aveva fortemente voluto a suo tempo quella unione perché si aspettava di averne il massimo della gioia che la vita potesse offrirgli, ma non era forse né preparato né maturo abbastanza da sopportare le autentiche mazzate che si accanirono a ferire e mortificare quel corpo splendido che era il primo e reale oggetto del suo amore. A lato del suo crescente distacco dalla moglie potei osservare anche un altro dato, quello dello scarso calore che c’era nel suo rapporto coi figli. Si occupava del loro benessere, perché ne sentiva il dovere. Non ho mai visto indosso a loro una maglietta che non portasse il coccodrillo della Lacoste, ma non ho neanche mai visto lui dar loro un bacino. Forse era affettuoso con loro nell’intimità, non posso escluderlo, ma con la moglie era stato diverso. Al tempo dell’amore la teneva sempre allacciata a sé, chiunque fosse presente lui non aveva remore e non mostrava alcun pudore nel manifestare sia il sentimento che il desiderio. Ebbi ancora una volta una impressione negativa, che li percepisse non tanto come figli suoi ma come i figli di Liliana.

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Chiesa di Santa Maria alle Fornaci

Seguitavamo a vederci a intervalli regolari, di solito nelle vacanze. Liliana era la più forte dei due. Sebbene fosse lei quella direttamente colpita si manteneva serena e lucida. Lui invece s’inoltrava in un percorso che al momento non individuai per ciò che era, un viaggio di sola andata nella depressione e nella disperazione. Cominciò col manifestare una riluttanza sempre maggiore per la guida della macchina e quando questa divenne una vera fobia si accordò con un dipendente che abitava in zona per farsi accompagnare in ufficio. Decise poi di rivolgersi a Cancrini, uno psicoterapeuta molto noto, per una terapia di coppia che non produsse risultati ma almeno rappresentò un tentativo di recuperare un rapporto con Liliana, e questo va ascritto a suo merito.

Tutto inutile. La psicoterapia non va da nessuna parte se cammina a braccetto con una bottiglia di cognac o di whisky al giorno. Altri segnali strani che mi arrivarono furono alcune lettere nelle quali mi confidava di aver improvvisamente recuperato una fede religiosa che aveva perso dall’adolescenza. Non giudico mai questi mutamenti delle persone, li interpreto come segnali di sofferenza dell’anima, le bracciate affannose che si danno per mantenere la testa fuor d’acqua. In una altra lettera mi confidava la sua amarezza per essere stato respinto da un’altra donna di cui si era innamorato. Infine mi giunse una telefonata della madre che mi avvisava del suo ricovero per accertamenti nella clinica Città di Roma, a due passi da casa mia. Ci andai di corsa e seppi che la Tac aveva rivelato la necrosi di un lobo del fegato. Tornò a casa e poco dopo mi disse che si trasferiva per lavoro a Torino, alla casa madre della Reale Mutua Assicurazioni. Per alcuni anni non ci potemmo incontrare. Mi sentivo ogni tanto con la sorella che avendo perso il marito era tornata a stare dalla madre. Mi disse lei che ormai Liliana si muoveva in carrozzina e che vivevano separati in casa come due estranei. Lui avrebbe voluto farla ricoverare in un istituto per tentare di vivere la sua vita ma lei si rifiutava decisamente, diceva che voleva morire a casa sua, che lui era suo marito e aveva il dovere di assisterla.

Lui effettivamente la assisteva ma freddo come un automa, senza più alcun amore. Si sentiva come prigioniero in una gabbia, fregato dal destino carogna. Non so nemmeno quanto il bicchiere potesse più aiutarlo a dimenticare, dato che la realtà nella quale era immerso non era eludibile, incombeva su di lui ogni ora della giornata. Lo scoppio di un aneurisma dell’aorta fece precipitare la situazione. Alle Molinette riuscirono a suturare l’aorta ma non fecero a tempo a dargli la copertura antibiotica necessaria. Subentrò una setticemia e ad una brutta agonia seguì una morte ancora peggiore, che mi fu annunciata per telefono dalla figlia. Liliana a quel punto nell’istituto ci dovette andare per forza, ma ci resistette neppure un anno. Ben presto mi giunse da Milano, dove Angela è sposata e lavora in banca, una seconda telefonata che mi annunciava la morte di sua madre.

Abbia pace. Il ricordo che ne ho è quello di un’amica affettuosa e una donna forte che univa alla eccezionale bellezza fisica il dono di un grande e sereno coraggio. In tante vicende non l’ho mai vista fiaccata nello spirito da quelle stesse avversità che colpendo lei hanno invece distrutto psicologicamente suo marito. Solo l’ultima volta che ebbi occasione di parlarci mi disse con amarezza: - Non ho avuto fortuna!

- Fanno dodici euro, signore. - Cosa? - Siamo arrivati. Non voleva andare al S. Giacomo? Il tassista mi richiama alla realtà. Pian piano scompaiono dalla mente i titoli di coda di quel lungo, amaro e amato film che ha accompagnato gli anni migliori della mia vita: mi aspetta la solita analisi di routine. Prendo il numero, entro in sala d’aspetto e mi abbandono sulla sedia. Provo a chiudere gli occhi ma non riesco a reagire allo squallore del sito che mi circonda e non mi ispira più nulla. Liliana e Cristoforo per oggi mi hanno lasciato ma non è un addio. Arrivederci amici miei, non potrò mai dimenticarmi di voi! Alla prossima volta, davanti a S. Maria delle Fornaci!

 

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