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LA MERAVIGLIOSA INTELLIGENZA DI UN SUBLIME IDIOTA

Una testimonianza napoletana del periodo della guerra
domenica 10 febbraio 2008 di Mario Scognamiglio



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Siamo lieti di pubblicare questo contributo di Mario Scognamiglio, articolo che fa parte del 18° numero dell’Albanacco del Bibliofilo che è stato presentato il 1 febbraio 2008 al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dal Presidente dell’"Aldus Club" prof. Umberto Eco.

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Quirinale 1 febbraio 2008
Giorgio Napolitano con Umberto Eco e Mario Scognamiglio

I napoletani della mia generazione, quelli che come me, brutalmente defraudati dell’adolescenza, furono costretti da una guerra infame a maturare in fretta, diventando adulti a dodici anni, non dimenticheranno mai la terrificante estate del 1943, il tragico 11 Settembre della nostra città, un 11 Settembre allucinante, lungo due mesi, che registrò il totale collasso di Napoli, una città stremata, ormai priva di difesa antiaerea, bersagliata quotidianamente da valanghe e valanghe di bombe assassine; ordigni di morte, firmati da maramaldi strateghi del terrore, sganciati alla cieca da macroscopici stormi di Liberators, trecento, quattrocento per raid, che rasero al suolo interi rioni,distruggendo ospedali, scuole, chiese e musei, seppellendo sotto le rovine delle loro case migliaia e migliaia di persone, in gran parte donne e bambini.

Ricordo in particolare, per averla vissuta sulla mia pelle, l’apocalittica incursione del 4 agosto di quel maledettissimo anno, il più micidiale attacco aereo subito dai napoletani durante la guerra; un bombardamento di inaudita ferocia, di incommensurabile viltà. Sbucando a sorpresa da dietro il Vesuvio - erano le ore tredici e trenta di una caldissima e afosa giornata - quattrocento fortezze volanti della Mediterranean Bomber Command invasero il cielo di tutti i quartieri della città, da Borgo Loreto a Santa Lucia, da Porta Capuana agli antichi Decumani,scaricando migliaia di bombe dirompenti e incendiarie sulla popolazione civile,terrorizzandola, massacrandola, uccidendo intere famiglie.

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Napoli 1943

Durò un’ora e mezzo quella mattanza,poi, compiuta la “missione”, i Liberators tornarono indenni alle loro basi, lasciandosi dietro le rovine fumanti di una grande, illustre città. Crollarono quel giorno case popolari e palazzi storici, orfanotrofi, alberghi e ospedali; crollò anche, centrato da tonnellate di tritolo, uno dei luoghi più cari ai napoletani, la chiesa trecentesca di Santa Chiara, affossando sotto le arcate sbriciolate di Masuccio, i sarcofaghi dei re di Napoli, i bassorilievi di Antonio Bamboccio e gli affreschi polverizzati di Giotto.

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Napoli 1943

Ancora oggi dopo tanti anni, quando i ricordi mi riportano a quel tragico 4 agosto, mi rintronano negli orecchi i sibili lancinanti delle bombe,il fragore terrificante delle esplosioni, le urla delle donne; rivedo emergere dalle rovine delle case del mio quartiere, barcollanti, imbiancate dai calcinacci,le figure spettrali dei sopravvissuti; rivedo me stesso, mia madre, i miei piccoli quattro fratelli, coi volti terrei, gli occhi sbarrati, annichiliti dal terrore.

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Napoli 1943

Quando mi trassero fuori dal rifugio antiaereo, incolume, ma taciturno e incupito, non ero più il ragazzo solare e spensierato di prima. Nell’attimo terribile dell’esplosione del tritolo sulle nostre teste, si verificò nella mia mente una specie di rivoluzione copernicana, un turbinoso rimestamento di emozioni e di sentimenti che sradicò dal mio animo consolidate convinzioni e acquisite certezze; in sintesi, metabolizzai, in un arco infinitesimale di tempo, verità sgradevoli, sconvolgenti per un dodicenne.

Quel pomeriggio d’estate di tanti anni fa, col cuore in tempesta, frastornato dal caos che mi circondava – macerie e polvere, morti, feriti,pianti disperati, orribili imprecazioni – presi coscienza dell’estrema precarietà della vita umana; mi sentii solo, indifeso, tradito da tutti, anche da Dio, alla mercè di uomini crudeli, spietati, che forse il giorno dopo, o quella sera stessa, sarebbero tornati, scaricando altre bombe, uccidendo anche me e la mia famiglia. Maturai quel giorno un’avversione totale e implacabile per la guerra, per tutte le guerre, un sentimento di ripugnanza verso tutte le forme di violenza, un’ostilità che ancora oggi tenacemente coltivo.

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Stalin, Roosevelt, Churchill

Ho raffrontato prima i bombardamenti terroristici effettuati su Napoli (e su Milano, Torino e Genova) nel 1943 alla orrenda, kafkiana strage delle Due Torri di New York. Il confronto vi sembra incongruo? Provate a chiederlo ai sopravvissuti dei mostruosi bombardamenti terroristici effettuati nel secolo scorso su Guernica, Coventry, Londra, Stalingrado, Dresda, Hiroshima, Nagasaki. La risposta non potrà essere che univoca:il terrorismo perpetrato cinicamente da statisti in doppiopetto e da generali supergallonati è di gran lunga più criminale di quello compiuto da tenebrosi esponenti delle “talebane rie” internazionali. Coloro che giustificano il terrorismo “a fin di bene” si avvalgono di un’espressione oltraggiosa, il più infame e blasfemo di tutti gli ossimori.

Chiedo scusa ai lettori per averli coinvolti nella rievocazione di una drammatica esperienza della mia adolescenza; tuttavia, per accedere al tema che mi sono prefisso di trattare (la genesi e l’iter iniziale della mia “carriera” di lettore) ho dovuto compiere un viaggio a ritroso nel tempo, per ritrovare l’habitat e il clima in cui sbocciò il mio amore per la lettura, letture gradatamente sempre più varie e frequenti che, a partire dagli otto, nove anni, epoca felice dominata dal Corriere dei Piccoli, mi condussero, anno dopo anno, transitando per il fascinoso mondo dei fumetti e del grande Salgari, a letture più complesse, alcune decisamente premature. A tredici anni leggevo di tutto, i romanzi di Verne e I tre Moschettieri, Zanna bianca e L’isola del tesoro, i fumetti di Mandrake e Delitto e castigo.

Investivo in quell’epoca tutti i miei soldini in libri, libri usati, che trovavo a bizzeffe, a pochi centesimi, sulla marea di bancarelle di Port’Alba, di via Costantinopoli e di Spaccanapoli; trascuravo, per leggere, la grammatica latina e i noiosi compiti di matematica e, per sfuggire alla solerte sorveglianza dei miei genitori – particolarmente tenace quella di mia madre, seriamente preoccupata per il mio “furore” libresco – mi arrampicavo sul tetto della nostra abitazione, un rifugio tranquillo, inespugnabile (che condividevo talvolta con mio fratello Salvatore e un gattone nero chiamato Frufrù), dove potevo immergermi beatamente nell’ultimo romanzo acquistato, vivendo intensamente le vicende narrate e le emozioni dei protagonisti del racconto.

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Sdraiato su quel terrazzo, dimenticavo la guerra e le sue brutture, l’esiguità del vitto quotidiano, la tristezza e l’infelicità della gente. Rifugiandomi nei miei adorati libri, compivo viaggi meravigliosi nell’India misteriosa, in Malesia, partecipando alle avventure di Sandokan e agli arrembaggi del corsaro nero; cavalcavo al fianco di Michele Strogoff, per migliaia e migliaia di verste, attraverso l’immensa pianura siberiana, ansioso anch’io di raggiungere Irkutsk, per punire Ivan Ogareff, traditore e ribaldo. Ridevo con Rabelais, soffrivo per la triste sorte di Papà Goriot, assistevo atterrito, col cuore che mi martellava nel petto, all’orrenda fine di Aliona, la vecchia usuraia, massacrata dalla scure di Raskolnikov; il sangue le zampillava dal cranio fracassato, agonizzava pervasa da orribili spasmi, ma Rodja stralunato, continuava a colpirla, con insensata, allucinante ferocia.

Vivevo di libri nei libri, e le letture anestetizzavano il desiderio insoddisfatto di mordere il pane; leggevo e sognavo, sopendo i morsi dolorosi della fame, endemica a Napoli nell’estate del ’43, masticando e ingurgitando castagne secche e carrube, lupini in salamoia e ceci abbrustoliti, unici alimenti, con i cavoli e i peperoni, ancora reperibili sul mercato. Ragazzi eroici quelli che vissero il ’43. Nessuno ci ha mai chiesto scusa. Nessuno ha mai commemorato i nostri morti. Seguiranno, nello scorcio di quell’estate e nei mesi autunnali e invernali, altri giorni di dolore: la disperata rivolta popolare contro i nazisti nelle sanguinose Quattro Giornate di fine settembre, l’umiliazione di una brutale e impietosa occupazione militare, il tifo petecchiale e – ‘o cane mozzeca ‘o stracciato – la disastrosa eruzione del Vesuvio del marzo del ’44. Fu in quei mesi che cominciò la “nottata” di Napoli, una nottata nera, senza fine.

Qualche giorno dopo il bombardamento, che inopinatamente è diventato il fulcro del mio racconto, la mia famiglia, fuggendo da Napoli su un carro carico di masserizie, trainato da un bel cavallo bianco che il carrettiere chiamava Liborio, trovò rifugio, dopo un lungo cammino attraverso le campagne della provincia di Benevento, in un’antica casa di villeggiatura di una famigli patrizia, una villetta di due piani con una torre merlata, immersa nel verde di un immenso meleto. La casa, in disuso dopo la morte del vecchio proprietario, un barone senza eredi, ci era stata assegnata dal sindaco di Sant’Agata dei Goti che, per scongiurare la minaccia di mia madre, decisa a scaricare nell’androne del municipio materassi e suppellettili, pentole e padelle, non esitò a consegnarci la chiave del palazzetto, impegnandosi anche a comunicare a mio padre (probabilmente in Albania), tramite il ministero dell’aeronautica, il nostro recapito.

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Sant’Agata dei Goti

Con l’aiuto della moglie del custode della villa e di due volenterose contadine, mia madre ripulì l’appartamento da annose, stratificate ragnatele, spolverando mobili, quadri e lampadari, lavando e lucidando i pavimenti, riattivando i bagni e la cucina. Io e mio fratello Salvatore invece, avendo scoperto nello studio della casa, tappezzato di diplomi, onorificenze e ritratti di Francesco e Ferdinando di Borbone, una grande scaffalatura stracolma di libri, trascorremmo i primi giorni del nuovo, gradevole soggiorno (incredibilmente tranquillo, senza l’urlo delle sirene d’allarme, senza il fragore delle esplosioni) a sfogliare diecine di annate arretrate della Domenica del Corriere e della Tribuna illustrata, album di artistiche vedute di Napoli antica e un gran volumone con tavole a colori di costumi militari dell’esercito borbonico. Gran parte della biblioteca era costituita da testi giuridici e di medicina; tuttavia, ispezionando anche i quattro grandi cassetti del mobile, riuscimmo a selezionare un congruo numero di opere appetibili, vale a dire una marea di volumi della splendida collezione de I classici del ridere, numerosi romanzi di letterati italiani e stranieri e i grossi tomi rilegati in pergamena della Enciclopedia UTET, una fonte inesauribile di informazioni e di interessanti letture.

In quell’oasi di pace, pur persistendo nel mio animo un malessere esistenziale, caratterizzato da un sentimento di profonda malinconia, ritrovai la voglia di vivere. Trascorrevo le mie giornate vagando senza meta nei campi di granturco e sotto i fronzuti alberi di un castagneto che si arrampicavano sempre più fitti fino al vertice di una collina. Saziavo la mia fame, ormai patologica, sgranocchiando pannocchie, bollite o arrostite alla brace,alternandole a profumate mele annurche che raccoglievo sotto gli alberi, mi dissetavo disteso carponi sul greto di un torrente, assaporando un’acqua freschissima, la più gustosa acqua ch’io abbia mai bevuto. Respiravo,inspirando l’aria avidamente, a pieni polmoni; correvo a perdifiato, saltando siepi e fossati, giocavo a pallone coi ragazzi del luogo; mi accompagnavo talvolta, cavalcandolo anche, a un dolcissimo asinello che ricambiava i miei doni, rape, mele e carrube con sonori ragli di gratitudine.

Gran parte del mio tempo, tuttavia, lo trascorrevo nella torre della villa, la mia nuova piccola sala di lettura, dove nel corso di un paio di mesi lessi moltissimi libri, avvalendomi anche dell’enciclopedia (il meraviglioso strumento che avevo appena scoperto) per approfondire la conoscenza dei loro autori. Fra i libri che lessi in quel periodo ricordo Quo vadis? dello scrittore polacco Sienkiewicz (un affresco stupendo della Roma gaudente e crudele dei tempi di Nerone), Satyricon di Petronio Arbitro, un romanzo picaresco ante litteram, che mi offrì la straordinaria sensazione di rivivere la Campania Felix di duemila anni fa, sensuale, crapulona, ironica e disincantata. Ricordo anche I viaggi di Gulliver, le Satire di Orazio (il mio primo grande Maestro di vita) e L’Idiota di Fëdor Dostoevskij, il più grande perito scrittore dell’animo umano.

La lettura di questo grande libro produsse in me una tensione spirituale straordinaria, una partecipazione così intensa al pathos che emana da tutte le sue pagine, da coinvolgermi, spinto da una forza arcana nel cuore del romanzo, nelle vicende narrate, nella dialettica dei temi trattati, nell’eccelsa filosofia dell’opera. I protagonisti del romanzo, Rogožin, Nastaja Filippovna, Aglaja, Ganja, Lebedev, Ivolgin, Kolja, Ferdiscenko, simili nella loro complessità a Raskolnikov, Marmeladov e ad altri personaggi dostoevskiani che avevo “frequentato” in Delitto e castigo, mi affascinarono per la profonda tristezza che li accomunava, per la loro esasperata vocazione, tipicamente russa, a confidare agli altri le loro angosce e le loro sofferenze, a confessare in pubblico passioni torbide e bassezze d’animo, egoismi spregevoli, meschinità inaudite. Il principe Myškin, regista inconsapevole di una catarsi collettiva, maieuticata dalla sua luminosa “idiozia”, mi affascinò sin dal suo primo apparire sulla scena del romanzo, nello scompartimento gelido di un vagone di terza classe di un treno che, proveniente da Varsavia , percorreva gli ultimi chilometri che lo separavano da Pietroburgo. La sua sensibilità, la delicatezza dei suoi sentimenti, il suo genuino amore per il prossimo, il suo parlare semplice, onesto, sensato, rallegrarono il mio cuore di adolescente, schiudendolo nuovamente alla speranza di un mondo migliore. Quel giovane ventisettenne, un po’ goffo e impacciato, soggetto a penose crisi di epilessia, mi soggiogò per la sua straordinaria bontà d’animo, per la sua umiltà, una virtù molto rara questa, comune soltanto agli spiriti eletti, che rappresentava la sua invincibile forza. Un uomo generoso Myškin, animato da sentimenti di profondo rispetto per tutti, sempre disposto alla comprensione, sempre pronto a perdonare le offese ricevute. Seguendolo nelle drammatiche vicende del racconto, mi innamorai della sua sublime “idiozia”, convincendomi che l’amore e la compassione, elementi basilari della filosofia del principe Myškin, costituiscono la legge fondamentale della vita umana.

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E’ passato tanto tempo dalla prima lettura di quel romanzo di Dostoevskij, una lettura edificante che contribuì notevolmente a forgiare i miei ideali e i principi etici della mia esistenza. Rileggendolo in seguito, più volte nel corso degli anni, ho provato sempre la stessa emozione di quando, tredicenne, vissi intensamente questo romanzo dedicato all’anima. Mi ero riproposto allora, affascinato dalla grandezza delle sue teorie, di adottare Myskin come Maestro, di praticare, con modestia e umiltà, la sua filantropia, la sua splendida “idiozia”. Oggi, dopo una lunga navigazione nei burrascosi mari della vita, sorrido, senza ironia, al ricordo di quei generosi, utopistici proponimenti. Non credo di essere riuscito a perseguirli compiutamente, ma posso affermare con sincerità di non averli mai traditi.

 

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