A Palazzo Braschi un nuovo spazio espositivo con affaccio su Piazza Navona propone una mostra che ha le carte in regola per passare alla storia come la mostra romana dell’anno: “Artemisia Gentileschi e il suo tempo”. Osannata da Roland Barthes come esempio di rivendicazione femminile, Artemisia Gentileschi (Roma 1593 - Napoli 1653) è stata una pittrice di forte temperamento che ha sofferto, amato e vissuto con passione in un’epoca di grande fermento artistico e questa passione traspare nelle opere in mostra, che trasmettono forti emozioni, soprattutto nella rappresentazione drammatica di eroine forti e coraggiose come Giuditta, Giaele, Cleopatra, Lucrezia, che nell’uccisione di un uomo o nel suicidio riscattano se stesse.
Il rischio poteva essere quello di far prevalere la storia umana di Artemisia (notissimo il processo per stupro contro il pittore Agostino Tassi, che se la cavò con l’esilio da Roma) a scapito della sua arte, ma così non è stato e viene pienamente fuori la sua figura di grande pittrice, grazie al confronto con importanti artisti con i quali è entrata in contatto nelle diverse città dove ha operato. Sono in mostra quasi 100 opere e di queste 29 sono di Artemisia, tutte di sicura attribuzione, prestate da importanti musei e collezioni private, più un interessante documentario sulla vita professionale dell’artista.
Nata da un’idea di Nicola Spinosa, quest’esposizione ha saputo coniugare quantità e qualità, con capolavori selezionati con rigore scientifico dai tre curatori, Judith Mann per la sezione romana, Francesca Baldassarri per la sezione fiorentina e lo stesso Spinosa per la napoletana. Le sezioni corrispondono alle città più importanti nell’ambito del suo percorso artistico, che comprende anche un soggiorno londinese (dove si era recata per curare il padre malato) e una parentesi a Venezia.
Oltre ai magnifici capolavori di Artemisia come la Giuditta che taglia la testa a Oloferne del Museo di Capodimonte, l’Ester e Assuero del Metropolitan Museum di New York, l’Autoritratto come suonatrice di liuto del Wadsworth Atheneum di Hartford Connecticut, si vedranno la Giuditta di Cristofano Allori della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze o la Lucrezia di Simon Vouet proveniente da Praga, solo per citarne alcuni. Manca all’appello, purtroppo, la Giuditta di Caravaggio di Palazzo Barberini la cui presenza sarebbe stata particolarmente coinvolgente, perché Artemisia parte proprio dal naturalismo caravaggesco, appreso dal padre Orazio Gentileschi, del quale ammiriamo in mostra Davide con la testa di Golia e una Sibilla.
Nella prima sezione relativa alla formazione presso la bottega del padre (1606-1613), vediamo come la giovane Artemisia, primogenita dei quattro figli di Orazio e sicuramente la più dotata, assimilò da questo ambiente tutto ciò che poteva, tanto che a 17 anni aveva già una spiccata attitudine a ritrarre la figura umana, come si vede in Susanna e i vecchioni (1610), in questo caso un nudo femminile, e a padroneggiare il racconto della storia. Malgrado la violenza subita nel 1611 da parte del Tassi, collega del padre, dipinse all’epoca alcuni lavori molto ispirati, come la Danae del 1612 e Giuditta e la fantesca Abra del 1613, accostati in mostra a dipinti di contemporanei, quali Carlo Saraceni, Giovanni Baglione e Jusepe de Ribera.
A seguito del processo intentato da Orazio Gentileschi contro il Tassi, Artemisia venne data in sposa dal padre al pittore fiorentino Vincenzo Stiattesi e si trasferì con lui a Firenze, dove nell’arco del suo soggiorno di otto anni (1613-1620) si distinse nel panorama culturale cittadino, con il supporto dell’amico Michelangelo Buonarroti il Giovane, tanto da essere accolta anche alla corte di Cosimo II dei Medici. A Firenze riuscì a entrare nel 1616 nell’Accademia del Disegno (fu la prima donna a esservi ammessa) e frequentò gli artisti allora presenti nel panorama fiorentino, come Cristofano Allori, inventore della “poetica degli affetti”. La sua Giuditta (di Palazzo Pitti) è messa al confronto con quella di Artemisia (del museo di Capodimonte), che proprio a Firenze sarebbe stata commissionata dalla nobildonna Laura Corsini. Nella città dei Medici conobbe Galileo Galilei, le cui idee scientifiche sono riflesse in alcune opere, tra cui l’Aurora del 1625, che ebbe una grande eco nell’immaginario pittorico del Seicento fiorentino, come attestano il Ratto di Proserpina di Giovanni Bilivert, Arianna abbandonata da Teseo nell’isola di Nasso di Francesco Morosini, il Pan e Siringa di Agostino Melissi e altre opere.
Artemisia tornò a Roma nel febbraio del 1620 e vi rimase fino al 1627. Nel 1621 abitava con il marito e la figlia Palmira in via Lata (ora via del Corso), ma aveva anche un amante premuroso nella figura di Francesco Maria Meringhi. Fra gli artisti attivi a Roma in quel periodo, quello che esercitò una maggiore influenza su Artemisia fu Simon Vouet, del quale ammiriamo in mostra il Suicidio di Lucrezia (1624) e la Circoncisione (1622). Proprio per un confronto più serrato con i temi drammatici preferiti da Artemisia, in mostra sono presenti molti soggetti mitologici e biblici, che ci parlano di violenza, anche se a volte non salta subito agli occhi, come nel caso della circoncisione effettuata su bambini piccolissimi, che è una prassi diffusissima e quindi accettata. Con il Suicidio di Lucrezia, invece, il nostro pensiero corre subito all’antefatto, ovvero allo stupro subito da Lucrezia da parte di Tarquinio, che rievoca la brutale violenza subita da Artemisia e da numerosissime donne solo perché belle e indifese.
Dopo un breve periodo a Venezia, dove s’innamora delle atmosfere sontuose del Veronese, tanto da rendere la sua tavolozza più brillante, Artemisia si trasferisce a Napoli su invito del viceré duca di Alcalà, che era stato a Roma suo committente e collezionista. A Napoli trova una situazione artistica importante e vi rimane fino alla morte, con una parentesi londinese (1638-39), che è ancora in gran parte da indagare. La splendida Annunciazione del 1630 (Museo di Capodimonte) e la Nascita del Battista del 1635 (Museo del Prado) sono tra i primi dipinti del periodo napoletano, stilisticamente influenzati da Vouet, da Massimo Stanzione e dal classicismo di Domenichino, impegnato nel 1631 a Napoli nella decorazione della Cappella di San Gennaro. Proprio nel 1631 Napoli è minacciata da un’eruzione del Vesuvio, fermata - si dice - dal venerato santo. E per la cattedrale di Pozzuoli, la città del martirio di San Gennaro, Artemisia dipinge tre tele. Per poter far fronte alle numerose committenze, la pittrice, ormai non più giovane, si avvale di collaboratori (non tutti dello stesso livello) mettendo su una vera bottega. Grazie ai numerosi confronti, sarà possibile capire il suo rapporto professionale coi colleghi partenopei: da Ribera e Stanzione a Francesco Guarino, Caracciolo, Bernardo Cavallino e Onofrio Palumbo, che secondo il curatore Spinosa è “il più modesto tra i suoi collaboratori”.
.