Questo viaggio nella Napoletanità prende spunto dall’ultimo libro di Achille della Ragione “Napoletanità arte miti e riti a Napoli”, presentato qualche mese fa a Roma nei locali della Galleria d’Arte “Minerva Auctions”, sita nel Palazzo Odescalchi. Quest’interessante volume rappresenta una sintesi della rimarchevole produzione letteraria del nostro autore su argomenti riguardanti Napoli e la sua cultura: storia, arte, folklore, leggende, tradizioni, sue esperienze personali e quant’altro così da configurarsi come un manuale di Napoletanità vista con gli occhi e l’animo dell’autore; un vero e proprio viaggio nell’anima più profonda di questa meravigliosa città.
La Napoletanità è termine forse difficile da esplicitare, ma che caratterizza da sempre il popolo napoletano, una razza a parte che, secondo la definizione di alcuni scrittori del passato, è stata con l’appellativo di Homo Neapolitanus, le cui abitudini si ripetono senza interruzione da più di duemila anni soprattutto nel cuore della Napoli più antica, a Spaccanapoli, ai Tribunali, dove la vita napoletana è sempre la stessa, uguale a quella che fu allora e a quella che sarà fra altri duemila anni. Queste strade sono state attraversate da imperatori, da principi, da gente armata e plebei, da aristocratici, da religiosi e mercanti; qui la gente è fuggita sotto il passo delle truppe d’occupazione e di liberazione; qui si sono susseguite epidemie, stragi, incendi, terremoti e feste, ma questo popolo, caduto e risorto cento e più volte, non è mai stato annientato e ha sempre avuto la forza di risollevarsi. Questa città non si è mai fermata un momento, non si è mai arresa, non si è mai prostrata; dal mitico sbarco dei Greci ad oggi, e sono trascorsi ormai più di 2500 anni, Napoli ha sempre ritrovato la via della speranza e della rinascita.
E riprendendo uno dei capitoli del nostro libro, questo antico popolo parla una lingua e non un dialetto. Come giustamente sottolinea l’autore “La parlata di Basile, di Viviani, di Eduardo non è certo sotto cultura, perché essa è stata definita nei secoli da Vico lingua filosofica, da Galiani il volgare illustre d’Italia degno degli ingegni più vivaci, da Croce gran parte dell’anima nostra, senza parlare della poesia animata da vivacità e fantasia, passione e amore, in grado di essere intesa anche da chi non ne riconosce correttamente le parole”.
Quanto mai appropriato è il titolo del libro perché l’arte, i miti e i riti sono tre aspetti che caratterizzano efficacemente la Napoletanità: essi, infatti, si ritrovano costantemente nella millenaria tradizione partenopea, fondendosi spesso tra loro, fino a rendere indistinguibili i loro confini e costituiscono in definitiva il filo conduttore di questo affascinante viaggio attorno all’Homo Neapolitanus.
Tante sono le opere d’arte citate nel libro, dai dipinti di Caravaggio a quelli di Stanzione, da Micco Spadaro a Solimena, dalle nature morte dei Recco e dei Ruoppolo alle vedute settecentesche di Joli e Volaire e a quelle ottocentesche di Carelli e Gigante. Ma di tutte queste opere non si analizza tanto l’autore né tantomeno la sua tecnica pittorica ma soprattutto si cerca di scoprire l’intima essenza del soggetto rappresentato, il suo significato più nascosto sempre allo scopo di mettere in luce i caratteri salienti della Napoletanità.
Ecco che il Maestro dell’Annuncio (fig. 1), quel misterioso pittore ancora oggi sconosciuto “dal fascino singolare e dalla tematica originalissima, cosiddetto dal soggetto dei suoi numerosi dipinti conservati in vari musei e raccolte private” viene associato alla questione meridionale. Dice a proposito l’autore del libro: “Una sorta di introspezione sociologica ante litteram della questione meridionale, indagata nei volti smarriti dei pastori, dalla faccia annerita dal sole e dal vento, dei cafoni sperduti negli sterminati latifondi come servi della gleba, immagine di un mondo contadino e pastorale arcaico, ma innocente e la cui speranza è legata a un riscatto sociale e materiale che solo dal cielo può venire, come simbolicamente è rappresentato dall’annuncio ai pastori”.
Invece le tele di Massimo Stanzione (fig. 2) o di Giuseppe Marullo raffiguranti la Madonna delle Grazie, detta anche delle anime purganti per la folla di anime in espiazione che si accalcano nella parte bassa dei dipinti, ci ricollegano a quel “delicato confine tra la vita e la morte che caratterizza la credenza di gran parte della popolazione napoletana, adusa a intrattenere con i trapassati un fitto rapporto, non solo preghiere, ma anche intercessioni e ottenimento di numeri sicuri da giocare al lotto, il gioco preferito da secoli all’ombra del Vesuvio”. Da qui deriva la pratica dell’adozione di quei teschi anonimi custoditi negli ipogei di antiche chiese napoletane, come il Purgatorio ad Arco o San Pietro ad Aram, oppure nell’immenso ossario del Cimitero delle Fontanelle (fig. 3); una pratica severamente proibita dalla Chiesa qualche decennio fa ma a tutt’oggi forse non completamente estinta.
Lo splendido dipinto dello svizzero Abraham Ducros raffigurante la Grotta di Posillipo (fig. 4) “ci conduce in quel mondo misterioso e affascinante costituito dalle caverne napoletane, una vera e propria città sotto la città, che pochi conoscono”. Tra le grotte più famose c’è la Crypta Neapolitana o Grotta di Posillipo, che un’antica leggenda dice scavata da Virgilio in una sola notte col ricorso alla sua potente arte magica, dove si praticava il culto del pagano dio Mitra e “per secoli teatro di pratiche orgiastiche in onore di Priapo che periodicamente impegnavano giovani di entrambi i sessi”. Qui nacque la famosa Piedigrotta napoletana (fig. 5) dopo che “l’avvento del Cristianesimo incanalò quegli scostumati costumi in una più tranquilla festività a cadenza annuale”. Questa festa, in auge fino alla metà del secolo scorso, coinvolgeva tutti i ceti e gli ambienti della città: per i plebei era l’occasione di far baldoria, almeno una volta all’anno, nelle strade dei signori mentre per i borghesi era l’occasione di divertirsi facendo almeno una volta all’anno quello che facevano i plebei.
E qui prepotentemente si inserisce il mito della Sirena Partenope, dimorante nel mare della penisola sorrentina, che, affranta perché il furbo Ulisse non si fece incantare dal suo canto melodioso, si lasciò trascinare dalle onde fino ad approdare ormai senza vita sull’isolotto di Megaride, dove oggi c’è il Castel dell’Ovo. Nel luogo dove poi fu sepolta, un gruppo di coloni greci provenienti da Cuma fondarono l’antica Partenope, nucleo originario della futura Neapolis greco-romana. Effigi della mitica Sirena sono presenti in tanti luoghi della città, dall’enigmatica testa marmorea di donna esposta sullo scalone di Palazzo San Giacomo, benevolmente chiamata “Marianna ‘a capa ‘e Napule” (fig. 6), ai bassorilievi sulle guglie di San Domenico e San Gennaro, all’ottocentesca statua della fontana di piazza Sannazaro a Mergellina. Ma l’immagine più intrigante è quella di una statuetta che sovrasta una fontana cittadina, purtroppo sconosciuta a molti, anche perché ubicata in una stradina secondaria alle spalle dell’Università Centrale; trattasi della fontana di Spinacorona, detta popolarmente “delle zizze” per l’acqua che sgorga dai capezzoli dell’alata sirena per spegnere le fiamme devastatrici del sottostante Vesuvio (fig. 7). Dice a proposito l’autore: “La sirena archetipo eterno della bellezza femminile, creatura fascinosa dalla potente seduzione, evoca con il suo prorompente seno nudo una pacata sensazione di tranquillità e ci trascina indietro nel tempo a temi e immagini del mondo pagano, un imprinting genetico che ha marcato indelebilmente il DNA dei napoletani”.
Questo stretto connubio tra arte, miti e riti, questo profondo intreccio che a volte rende indistinguibili fra loro questi caratteri ci si rivela continuamente ogniqualvolta percorriamo le strade della città. Scegliamo allo scopo due itinerari classici, da sempre privilegiati dai napoletani e dai turisti, cioè via Toledo e i Decumani. Percorrendo queste strade si manifestano quasi senza soluzione di continuità i caratteri peculiari della Napoletanità: opere d’arte custodite nelle tante chiese e palazzi nobiliari che si susseguono lungo il tragitto, miti e leggende legate a quel particolare luogo, riti officiati da secoli dal popolo, molte volte quasi inconsapevolmente.
Via Toledo (fig. 8), la strada intitolata al viceré spagnolo che la aprì per avere un collegamento diretto dell’antica città col nuovo palazzo vicereale, rinominata via Roma dopo l’Unità e ritornata a furor di popolo all’originario nome soltanto da una trentina d’anni, definita da Stendhal “la strada più popolosa e allegra del mondo”, è nota anche come la via dello “struscio”, un termine che risale agli anni del viceregno, quando a Napoli, durante la settimana santa fu imposto il divieto di circolare con cavalli e carri. I fedeli, che in gran numero osservavano il rito dei sepolcri, erano quindi costretti a circolare a piedi lungo la principale arteria cittadina e visto il gran numero di persone, il passeggio era lento e si procedeva quindi strusciando, cioè strisciando i piedi lentamente sul selciato e anche le stoffe rigide dei vestiti nuovi indossati per l’occasione, strusciavano tra di loro producendo un suono sommesso.
Qui si susseguono antichi palazzi dove nella volta di alcuni androni permane ancora lo stemma memore di una passata nobiltà ed in qualche cortile si apre la scenografica scala a giorno o ad ali di falco, meravigliosa testimonianza di architettura settecentesca dettata dal Sanfelice. E poi dopo la barocca chiesa di San Nicola con l’interno risplendente dei dipinti di Solimena e De Mura dai toni caldi e luminosi, quasi d’incanto s’incontra l’avveniristica Stazione Toledo della Metropolitana (fig. 9), definita non a torto la più bella d’Europa, dove nel sottosuolo la fantastica e ultramoderna galleria del mare dell’americano Bob Wilson convive con le antiche vestigia delle fortificazioni aragonesi.
L’originale e fastoso portale barocco del nobiliare Palazzo Zevallos (fig. 10), opera del geniale Cosimo Fanzago, ora sede di una banca, ci introduce negli ambienti dell’antico piano nobile dove risplende lo sconvolgente Martirio di Sant’Orsola (fig. 11), che fu l’ultima fatica del Caravaggio.
E ancora più avanti nello storico locale di Pintauro si ripete il rito della sfogliatella, tipico dolce partenopeo forse nato intorno al ‘700 in un convento di Conca dei Marini sulla costiera amalfitana per l’abilità culinaria di una sconosciuta monachella, la cui segreta ricetta fu poi carpita dall’oste Pintauro che inventò l’attuale delizia con la variante sfoglia-riccia.
Al termine di via Toledo, dopo aver oltrepassato l’affascinante Galleria Umberto, pregnante simbolo della nascente borghesia post-borbonica, quasi trascinati dalla fiumana di gente che spesso si riversa qui, sfociamo nella piazza del Plebiscito (fig. 12), la più grande della città, l’ombelico di Napoli, “l’antico spazio denominato Largo di Palazzo, scandito dal succedersi di grandi eventi e dalla presenza di tanti illustri personaggi che hanno fatto la nostra storia nel bene e nel male” ed altresì nota “per le memorabili feste che vi si svolsero, spesso allietate dalle famigerate cuccagne, che permettevano alla plebe il saccheggio di cibi di ogni genere”. Qui sulla facciata del Palazzo Reale (fig. 13) sono schierate le otto statue dei più rappresentativi sovrani delle dinastie che regnarono a Napoli, da Ruggero il Normanno a Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia; si dispiegano così in rapida successione davanti ai nostri occhi ben sette secoli di storia della città.
L’itinerario dei Decumani ci porta invece nella Napoli più antica, nel centro storico della città, il più vasto d’Europa, giustamente dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, dove permane ancora intatto l’impianto urbanistico cosiddetto ippodameo, conservatosi quasi integralmente con la regolare scacchiera dei tracciati viari della Neapolis del V secolo a. C. Spaccanapoli (fig. 14) è uno degli antichi decumani della città, chiamato così perché a guardarlo dall’alto di San Martino sembra una lunga ferita, il segno lasciato tra le case più dense da un mostruoso coltello: e a viaggiarci dentro, invece, storditi e meravigliati, in questa strada che certamente è la più antica e viva del mondo, si sa che qui è nata e in eterno si rinnova la prodigiosa civiltà napoletana.
Partiamo da piazza del Gesù dove si fronteggiano la tufacea mole della basilica di Santa Chiara, sacrario dei re angioini, e la chiesa del Gesù Nuovo dall’inconsueta facciata col paramento bugnato in piperno a punta di diamante (fig. 15), memoria dell’antico palazzo dei principi di Salerno su cui fu poi edificato il tempio dei padri Gesuiti. Su queste bugne sono incisi dei misteriosi segni aventi a che fare, secondo un’antica leggenda, con arti magiche o conoscenze alchemiche, addirittura recentemente identificati da alcuni studiosi come note dello spartito musicale di un concerto per strumenti a plettro al quale è stato dato il titolo di Enigma.
Lungo Spaccanapoli si susseguono poi antichi palazzi nobiliari, tra i quali quello dei Filomarino, ultima dimora di Benedetto Croce che qui “dolcemente chiuso nel grembo di quelle vecchie fabbriche, vigilato e tutelato dai loro sembianti familiari, immaginava di ritrovarsi nella casa dove visse la sua infanzia nel riconoscere gli oggetti che risvegliavano la sua meraviglia e lo muovevano a fanciullesche immaginazioni, e a rimirarvi i severi ritratti dei morti, che gli incutevano un tempo rispetto e paura”.
Poco più avanti presso l’altra basilica angioina di San Domenico ecco la Cappella Sansevero, “legata indissolubilmente alla figura del proprietario, il celebre principe Raimondo di Sangro (fig. 16), ritenuto da sempre un incrocio tra scienziato pazzo e mago stregone, ma invece uomo di sconfinata cultura, abile militare, alchimista, scrittore, editore, ma soprattutto massone. All’interno è custodito il famosissimo Cristo velato (fig. 17) ricavato da un unico blocco di marmo, uno dei capolavori della scultura mondiale, opera di assoluta perfezione del Sanmartino, “un vero e proprio prodigio tecnico, che permette di vedere chiaramente sotto un velo di marmo le fattezze di Nostro Signore”. Tra i suoi estimatori ci fu il Canova, che tentò di acquistare l’opera dichiarandosi disposto a dare dieci anni della propria vita pur di essere l’autore di un simile capolavoro. La magistrale resa del velo, che si deve al virtuosismo fuori del comune dell’artista, ha nel corso dei secoli dato adito a una leggenda secondo cui il principe avrebbe insegnato allo scultore la calcificazione del tessuto in cristalli di marmo attraverso un processo chimico dalla formula segreta.
Ed eccoci poi nel Largo Corpo di Napoli dove la statua del dio Nilo (fig. 18) nelle sembianze di un vecchio barbuto disteso ci rammenta l’ubicazione dell’antica Regio Nilensis, sede di una colonia alessandrina nell’antica Neapolis, inoppugnabile testimonianza che già duemila anni fa la multietnicità era di casa nella nostra città.
Ci inoltriamo poi in via San Gregorio Armeno (fig. 19), “strada famosa in tutto il mondo perché considerata un autentico santuario dell’arte presepiale, essendo costellata da numerose botteghe di artigiani specializzati nella fabbricazione dei pastori, i cosiddetti figurari, difficile e laboriosa da percorrere in periodo natalizio per il massiccio afflusso di turisti e curiosi”. Nell’omonima chiesa di San Gregorio Armeno, scintillante di decorazioni barocche, si rinnova poi la liquefazione del sangue di Santa Patrizia, uno dei cinquantadue compatroni della città assieme al ben più noto San Gennaro, il quale non gode affatto dell’unicità dell’evento prodigioso.
Poco più avanti siamo in piazza San Gaetano (fig. 20), per secoli il cuore pulsante della vita politica, economica e sociale della città, l’antica agorà dell’epoca greca e foro dell’epoca romana. Oggi al posto delle strutture più antiche si stagliano poderose le sagome delle chiese di San Paolo Maggiore, dove sorgeva un tempo il tempio dei Dioscuri, e di San Lorenzo Maggiore (fig. 21), dove era ubicato il Macellum, l’antico mercato dei commestibili della città romana, ritrovato a circa sei metri di profondità al di sotto del complesso angioino. L’ampio e luminoso interno della francescana chiesa di San Lorenzo, testimone del più puro stile gotico francese e stupendo esempio di architettura ecclesiastica medievale, ci infonde un senso di profonda misticità e contrasta profondamente con la concitazione dell’ambiente esterno. In alto, sulla facciata del convento, sono collocati gli stemmi dei antichi Sedili o Seggi di Napoli, una sorta di circoscrizioni comunali dell’epoca. Qui nella torre campanaria si riunivano ogni giorno gli Eletti cittadini, per cui quel luogo era detto il Tribunale di San Lorenzo, vero simbolo della volontà cittadina. Come ci ricorda uno scrittore del ‘600, il Capaccio, “là si trattava l’annona, là si sopivano le differenze, là conservavano gli averi dei cittadini, là erano custodite le artiglierie della città, col tocco della campana della chiesa si potevano convocare tutti i cittadini, quando succedesse invasione”. E poi giustamente concludeva che “Se si vuol capire la storia di Napoli, bisogna partire da San Lorenzo”.
Percorrendo via Tribunali, che segue fedelmente il tracciato originario dell’antico Decumano maggiore, la strada principale dell’antica Neapolis, dopo aver superato gli innumerevoli locali teatro dell’immancabile rito della pizza, giungiamo nella piazzetta occupata quasi interamente dalla guglia eretta in onore del Santo Patrono San Gennaro (fig. 22) dopo la terribile eruzione del Vesuvio del 1631, come segno di ringraziamento per lo scampato pericolo. Di fronte c’è la piccola chiesa del Pio Monte della Misericordia, preziosa custode dello straordinario dipinto del Caravaggio con le Sette opere di misericordia (fig. 23), commissionatogli dai Procuratori dell’istituzione caritatevole, una delle tante presenti in città già dal ‘500, sorte con lo scopo di aiutare i più bisognosi. Cito ancora quanto dice l’autore a proposito: “In questa memorabile opera del Caravaggio convivono la più disperata visione di un’umanità elementare associata a una fedele rappresentazione didascalica dei precetti morali della Chiesa. Sembra di percepire il fragore quasi fisico di vita passionale che prorompe dalla tela. Alcuni brani prelevati dai vicoli cittadini sono indimenticabili, come la Madonna che si affaccia al balcone della notte o la popolana che offre il seno a nutrimento del padre carcerato, mentre su tutto aleggia una risonanza antica di Grecia e Pompei”. E’ questa una vera e propria fotografia di vita nella città seicentesca.
Ed infine al termine del nostro viaggio giungiamo al Duomo, forse il monumento che più di ogni altro rivela la sua millenaria stratificazione attestando chiaramente il susseguirsi dell’età greca, romana, paleocristiana, gotica, rinascimentale, barocca, moderna. Il tutto è chiaramente attestato dall’area archeologica sotterranea con tratti di strada greca e romana; dalla basilica eretta nel IV secolo da Costantino, la più antica della città, denominata in seguito di Santa Restituta con l’annesso battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte, considerato il più antico in tutto l’Occidente cristiano; dalla suggestiva Cappella Minutolo, uno degli esempi più integri e completi di architettura e decorazione due-trecentesca nell’intero contesto napoletano; dal gioiello rinascimentale del Succorpo (fig. 24), una delle più eleganti creazioni di quel periodo a Napoli ed infine dalla splendida e ricca Cappella del Tesoro di San Gennaro con le venerate reliquie del Santo Martire Gennaro. L’insieme di tali strutture fanno così del Duomo un fantastico museo della storia dell’architettura e delle altre arti degli ultimi sette secoli a Napoli. Nella Cappella del Tesoro, raffigurata da Giacinto Gigante con la folla in trepida attesa dell’evento (fig. 25), si rinnova poi costantemente, due volte l’anno, il prodigio della liquefazione del sangue di San Gennaro “osservato nei secoli da tanti smaliziati visitatori stranieri, a Napoli per il Grand Tour, scettici e illuministi, ma sempre cauti nel cercare una spiegazione razionale del fenomeno. E nell’attesa che parte del mistero che circonda i sacri grumi possa dissolversi attraverso l’indagine della scienza resta l’oggettività del prodigio sotto gli occhi di tutti, credenti e scettici, a fornire agli uni il coraggio della fede, agli altri una giusta dose di meditazione e riflessione”.
In conclusione questo libro, che definirei un vero e proprio manuale di Napoletanità, non è soltanto un viaggio nel grande patrimonio culturale, artistico e scientifico prodotto dalla città e dai suoi figli migliori ma è altresì un viaggio nell’anima più profonda del suo popolo. Dalla sua lettura nascono immediatamente una riflessione e uno stimolo per tutti noi Napoletani a mantenere sempre viva la nostra identità; quando camminiamo per le strade, per le piazze, per i vicoli della nostra città cerchiamo di osservare sempre con orgoglio e con amore le sue memorie storiche, sentiamoci al sicuro “nel grembo di quelle vecchie fabbriche, immaginando di ritrovarci nella casa della nostra infanzia” come disse amorevolmente Benedetto Croce. Invece per i non Napoletani questo libro è un caloroso invito a visitare Napoli, a scoprire le sue meraviglie e quella Napoletanità che caratterizza i suoi abitanti, ma soprattutto a guardare questa città con benevolenza, dimenticando i tanti stereotipi con cui è stata descritta e chiudendo talvolta un occhio davanti a qualche stortura di cui possano essere testimoni.
Cito a proposito quel che disse Goethe con entusiasmo quando giunse a Napoli più di due secoli fa. “Si dica o racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata. Queste rive, golfi, insenature, il Vesuvio, la città coi suoi dintorni, i castelli, le ville! Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono fuor di senno!”