L’esposizione di dipinti fiorentini del Seicento che si tiene dal 1° maggio fino al 20 giugno a New York, per poi approdare fino alla fine di luglio a Londra, richiama immediatamente alla mente il noto paradigma oraziano dell’ Ut Pictura Poesis, per i contenuti, per le opere che propone, per le le deliziose immagini che mette in mostra, tutte certamente riassumibili anche nel concordante e non meno noto aforisma del poeta greco che abbiamo riportato nel titolo e che stabilisce il profondo nesso tra le due arti nel segno reciproco della mimesis.
La mostra, fortemente voluta e realizzata dagli storici antiquari toscani Moretti, si avvale di un prestigioso catalogo (vedi logo) realizzato da Francesca Baldassari e segna effettivamente una tappa importante per l’affermazione internazionale di questa esperienza artistica spesso sottovalutata.Certo non ha torto Francesca Baldassari, quando afferma, nel saggio intitolato Breve viatico alla mostra (e alla pittura del Seicento fiorentino) con cui chiude lo splendido volume, che quella progettata da Fabrizio Moretti è certamente “ un’impresa coraggiosa in tempi in cui vanno di moda soprattutto Caravaggio, Leonardo e Michelangelo” veri o presunti che siano, viene da aggiungere.Ma evidentemente, occorre dire, parafrasando al contrario il poeta, che il coraggio aiuta chi ce l’ha, anche perchè, al contrario di don Abbondio, Fabrizio Moretti nel suo campo non è certamente il vaso di coccio in mezzo ai molti vasi di ferro.
Così come, nel suo campo di esperta dell’arte fiorentina, nonché dell’arte rinascimentale e barocca in generale, Francesca Baldassari conferma il suo ruolo di specialista indiscussa, continuando sicuramente a convincere nel suo sforzo ormai pluriennale teso a proiettare soprattutto la pittura post rinascimentale di area toscana nel posto che le spetta nel panorama dell’arte internazionale, con i suoi valori ed i suoi confini, come la stessa studiosa chiarisce quando sostiene che “questa pittura è da prendere in seria considerazione anche se non raggiunge il livello dei precedenti smaglianti capolavori del Rinascimento e del Manierismo”.
Certo non deve essere stato agevole indagare una esperienza artistica considerata, fino a pochi decenni fa, al massimo di complemento, se non addirittura erede povera e spuria della grande stagione cinquecentesca e sulla quale gravavano giudizi tranchant e pregiudizi pressoché definitivi, non ultimo quello di Roberto Longhi.
Ed è davvero curioso notare che proprio gli studiosi della scuola di Longhi -in primis Mina Gregori- e quelli formatisi dentro la Fondazione che porta il nome del grande storico e critico, tra i quali appunto la Baldassari, siano stati invece capaci di passare oltre la curvatura di quei giudizi, legati peraltro a volte all’idea sbagliata che si aveva del contesto artistico della città di Firenze ed in genere dello stato mediceo nel XVII secolo, considerati inclinati verso un irreversibile declino culturale e sociale.
E’ stato merito proprio della Baldassari aver contribuito non da ieri -sulla scia, non va dimenticato, degli studi di Piero Bigongiari- a ribaltare questo luogo comune, inserendo le sue ricerche e i suoi studi d’arte finalmente in un ambito più acconcio e poco indagato, vale a dire la Firenze del Seicento, capitale di uno stato all’avanguardia del rinnovamento nel campo della musica e del teatro, dove, ad esempio, grazie al favore e alla protezione accordatagli dai Medici, Galileo Galilei poteva liberamente operare ancora tollerato dalle gerarchie ecclesiastiche (non a caso il grande scienziato chiamò proprio in onore di Cosimo II, ’pianeti medicei’ i quattro satelliti di Giove, scoperti grazie al suo ’cannone occhiale’ e di cui diede notizia nel Sidereus Nuncius del 1610).
E’ documentato peraltro che Galileo ebbe con alcuni artisti fiorentini numerosi contatti grazie ai quali “i pittori fiorentini avevano iniziato ad indagare nella mente umana e a descriverne le complessità e la contraddizione dei sentimenti”.
Siamo in effetti nel contesto di un’epoca attraversata da numerosi sconvolgimenti di ordine sociale politico religioso che in ambito culturale e filosofico viene genericamente riassunta nel fenomeno cosiddetto della “perdita del centro”, dovuto al crollo delle certezze aristoteliche e all’affermarsi, ineluttabile per quanto contrastato, del ’metodo’ cartesiano, del razionalismo, portatore di una nuova era figlia di un nuovo modo di pensare, in cui il ruolo dell’uomo -prima saldamente ancorato al centro dell’universo- appare ora ben riassunto da un aforisma di Blaise Pascal :”L’uomo è come una canna in balia del vento; ma è una canna che pensa”.
In questo contesto “la pittura fiorentina è un crocevia di scambi e influenze che non finisce mai di meravigliare -scrive la Baldassari- offrendo sempre testi intriganti, di grande spessore e fascino”.
E infatti la studiosa percorre con la usuale capacità analitica e descrittiva i fascinosi esiti creativi dei vari artisti, a cominciare da quel Carlo Dolci (fig 1) sul quale, com’è noto, la stessa autrice ha prodotto una eccellente monografia seguita da vari aggiornamenti, che è la figura sicuramente predominante nel panorama artistico in ambito mediceo di questo periodo, senza però tralasciare di rimarcare il rilievo assunto da Francesco Furini “inseguitore instancabile della bellezza” -secondo la studiosa- nonché “inventore della pittura da stanza” (fig.2).
Ma uno spazio importante viene riservato anche alle altre varianti della scuola pittorica, da quella ’purista’ di Ottavio Vannini (fig.3) a quella ’burlesca’ di Jacopo Vignali (fig.4) e poi alla ritrattistica “in cui la pittura fiorentina eccelse”(fig.5) ed anche al ruolo di un pittore poco noto, come Gregorio Pagani, che però seppe favorire “il superamento della maniera cinquecentesca in direzione della poetica degli affetti secentesca”.
Un rilievo a parte ed un maggiore approfondimento -dobbiamo dire- avrebbe probabilmente meritato la figura di un ’irregolare’ come Giovanni Martinelli, il pittore di Montevarchi (cui peraltro è stata dedicata di recente una pregevole mostra nella sua città), qui citato per le sue ’allegorie’ ( fig 6) ma forse meglio noto per altri dipinti naturalistico-moraleggianti di chiara ascendenza caravaggesca (fig.7) .
Come si è già detto, il compito svolto dalla famiglia dei Medici nella promozione delle arti, non solo figurative, nel corso del XVII secolo è stato basilare. Per quel che concerne più specificatamente la pittura, un’autentica predilezione ebbero vari membri della casata per le traduzioni su tela di soggetti tratti dall’epica letteraria, probabilmente sull’esempio del successo di cui godettero in quegli anni dipinti di questo genere in Francia, alla corte di Maria de’ Medici.
Ma non va trascurato il sottostrato politico-religioso insito in opere quali la Gerusalemme Liberata, in cui il tema del Meraviglioso cristiano individuato da Torquato Tasso si attagliava perfettamente alle esigenze culturali tanto di un’epoca in cui prevaleva la logica controriformista quanto di un casata tradizionalmente attenta alla situazione dei luoghi santi dominati dagli infedeli, specie dopo il matrimonio (1589) del Granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena che, a torto o a ragione, rivendicava una discendenza diretta con Goffredo di Buglione.
E proprio dalle vicende dell’Orlando Furioso di Ariosto, della Gerusalemme Liberata di Tasso e delle Metamorfosi di Ovidio presero spunto numerosi artisti locali operanti nella corte granducale.
E’ stato sottolineato da vari studiosi il ruolo ricoperto in particolare dal Cardinale Carlo de’ Medici, fratello del Granduca Cosimo II, il successore (1609) di Ferdinando I, specie dopo l’acquisizione del Casino di San Marco, nella committenza di numerosi dipinti ispirati a quelle opere, che evidentemente, insieme agli affreschi murali di carattere storico concernenti i Granduchi di Toscana con cui il porporato fece adornare il Casino, muovevano anche da un’esigenza di attestazione e ribadimento della forza politica della famiglia.
Come pure va ricordato il nipote, Giovan Carlo, anch’egli rivestito della porpora cardinalizia nel 1645, amante e committente in particolare di dipinti derivanti dall’ Orlando Furioso, nonché fondatore del Teatro alla Pergola, dove ebbe origine il genere del melodramma.
In effetti, se consideriamo quanto scrive nel Breve viatico alla mostra , la Baldassari su questi aspetti non sembra penetrare a fondo, posto ovviamente che il suo è un testo concepito giusto per descrivere una mostra, e perciò stesso con precisi limiti contenutistici.
Lo segnaliamo alla’utrice non come una critica ma come uno stimolo per ulteriori ricerche, perchè se è pur vero che andrebbe anche approfondita la tesi, già da alcuni avanzata, di una lettura in chiave ’morale’ dei ’comportamenti’ dei protagonisti dei dipinti – nella logica dell’eterna lotta tra il vizio e la virtù- da interpretare in sostanza secondo la formula ciceroniana del docere movere delectare, applicata dalla retorica all’arte figurativa, è altrettanto vero, a nostro parere, che occorrerebbe approfondirne i diversi linguaggi, ampliando l’analisi semantica, strutturale, sempre che si creda che l’opera d’arte debba essere considerata alla stregua di un insieme di segni da decodificare tramite appunto un approccio semiotico.
Un approfondimento in questa direzione potrebbe portare a nostro avviso a risultati interessanti, proprio sul terreno della problematizzazione della questione del significato di un ’opera d’arte, che l’autrice sembra comunque ricomporre, nei casi in esame e comunque sempre tenendo conto dei limiti contenutistici che dicevamo, nell’ambito ’classico’ della ’meraviglia’ e del ’virtuosismo’, entrambi cari alle poetiche concettiste prevalenti in quel periodo, pur rivendicando a questa pittura “una propria affascinante autonomia”.
Sotto questo aspetto, ha perciò ragione quando enumera quali caratteristiche peculiari dei vari artisti le “qualità disegnative e pittoriche”, “l’eleganza formale e coloristica”, le “scene raffinate”, le “feste di colori e stati d’animo”, i “gesti studiatissimi”, le “giovani fanciulle” quasi sempre “bellissime”, quasi sempre “semisvestite”, spesso prese “di spalle” (figg.8, 9, 10) così come effettivamente ci appaiono nei dipinti.
D’altra parte, le splendide immagini che la studiosa ha sapientemente catalogato per offrirle ai nostri sguardi e soprattutto a quanti visiteranno l’esposizione, non lasciano dubbi in proposito; sia che si tratti di testi sacri (figg. 11) sia che vengano proposti testi profani (fig. 12 ) si resta comunque colpiti dalla ricchezza espositiva e dalla felicità immaginativa e creativa di artisti superiori, per così dire, quali appunto Carlo Dolci (fig. 13) o Francesco Furini (fig.14) o Lorenzo Lippi (fig.15) , tanto quanto ci affascinano pittori non diciamo inferiori ma certamente meno noti, quali Francesco Lupicini (fig.16) o Alessandro Rosi (fig.17) o Jacopo Vignali (fig.18). Insomma, si può ritenere un dato consolidato quello per il quale il ’seicento fiorentino’ conosce il suo vero tratto di originalità nella trasposizione su tela di passi desunti dalle opere letterarie allora più in voga, secondo quella che era la formula dell’ekphrasis sviluppatasi due secoli prima.
E la mostra newyorchese presenta, a questo riguardo, quello che, a ragione, la Baldassari ritiene essere un “vertice di questo genere”, vale a dire Rinaldo impedisce il suicidio di Armida, (fig. 19) tratto dalla Gerusalemme Liberata, un dipinto di straordinaria qualità di Simone Pignoni, il miglior allievo di Furini, che seppe trasmettere “fino al Settecento lo stile morbido e sensuale appreso dal maestro”.
Ma un lungo quanto opportuno ed efficace passo del suo saggio la studiosa lo riserva ad un autentico capolavoro, riemerso dall’anonimato da poco, proprio grazie alle sue ricerche, cioè Cariclea che piange Teagine ferito, (fig.20) dipinto da Francesco Furini nel 1627 per il duca Giovan Battista Strozzi.
Per questa iconografia il pittore si avvalse di un testo alessandrino considerato dalla Baldassari “il massimo della sofisticazione letteraria”, vale a dire le Etiopiche di Eliodoro di Emesa, un romanzo d’amore che ben si prestava evidentemente a sintetizzare la poetica dell’artista; come infatti scrive l’autrice :”Qui abbondano gli strumenti drammatici classici sfruttati dal palcoscenico per raggiungere la verità rivelata solo alla fine della storia: la dimensione erotica e patetica, l’esotismo, il tema del doppio, le peripezie, i monologhi, la ricapitolazione delle sventure occorse, la marcata gestualità, gli equivoci, i riconoscimenti e le ricomposizioni. Come sul palcoscenico, l’attore pittore Furini visualizza ciò che appare all’apertura del sipario”.
Questa lunga citazione a nostro parere riesce perfettamente a delineare quelle che furono le componenti e i contenuti dell’arte dei pittori di quest’epoca nella città medicea, e se è vero che, come nota ancora la studiosa “molto resta da fare per l’apprezzamento della pittura fiorentina del Seicento negli Stati Uniti” è altrettanto vero che iniziative espositive come quella di New York possono senz’altro segnare una svolta in questa direzione.
Cosa che sarebbe quanto mai opportuna ed auspicabile, anche in termini di mercato, ed alla quale questa impresa editoriale che ha prodotto il libro firmato da Francesca Baldassari di certo può apportare un grosso contributo.