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ANDREA DI AMATRICE, CONDUCENTE ATAC.

Umile eroe del trasporto romano
domenica 4 marzo 2018 di Marcella Delle Donne

Argomenti: Attualità
Argomenti: Italia


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Sabato, 24 febbraio. E’ sera, impegnata tutto il giorno nel lavoro di ricerca sulle guerre che stanno devastando la Siria, si fanno le ore 20.00. Mi accorgo di non avere quotidiani del giorno. Non è la prima volta. L’unica edicola di giornali, aperta tutta la notte, si trova a Piazza della Repubblica, inizio via Nazionale, a ridosso dell’arcata di sinistra dei portici che prosegue sul lato destro della via e fa da corona alla piazza. Mi avvio, gli edicolanti sono due bengalesi gentili.

Dei giornali richiesti manca il quotidiano La Stampa: “ Ce ne mandano solo poche copie che finiscono subito”.

Delusa, un po’ depressa, mi avvio alla fermata dei bus davanti alla stazione Termini. Il bus 92, che fa capolinea a Termini, mi porta diretto a casa. Con sorpresa, per le lunghe attese che normalmente ci vogliono prima dell’arrivo del bus, il 92 è lì, al capolinea. Corro, salgo, mi metto seduta vicino al conducente, sono le 20.40.

Nell’attesa dell’orario di partenza, il conducente sta con il cellulare acceso, parla sottovoce, non udibile.

Giunto l’orario di partenza, il conducente inizia il suo percorso, guida con il cellulare acceso tenuto con una mano. Intervengo con risolutezza: “Lei non può guidare con il cellulare acceso!”. Spegne il cellulare e chiama la centrale con il dispositivo interno al bus, che mal funziona. Alza la voce per farsi sentire: “Qui c’è una persona che mi ha redarguito perché parlo al cellulare mentre guido, ma il sistema di comunicazione con la centrale operativa è mal funzionante. Se ci fosse la cabina guida protetta, alla vista dei passeggeri, non ci romperebbero le scatole, ma questi non si fanno i cazzi loro”. Poi prosegue sul discorso che stava facendo a bassa voce sul suo cellulare: “Questa è la mia ultima corsa, ho iniziato alle 15.00 e dovrei finire alle 20.00. Si lo so, due vetture sono fuori uso, io sono pure disposto a fare un’altra corsa, ma dovete considerarla come straordinario”. Chi, dalla centrale, gli dava quest’ordine, passa la linea al principale, che interviene in modo brusco e autoritario. Il conducente cambia voce, diventa consenziente: “Si, un’altra corsa, va bene la farò, ma è una corsa in più che dovrei fare… va bene, la farò”.

Finita la conversazione intervengo io con voce un po’ alterata: “Scusi, se lei, mentre guida, sta con il cellulare in mano, è un affar mio, come passeggera, perché lei mette a repentaglio la sicurezza di tutti noi”.

L’ambiente del racconto per immagini

Il conducente tace per qualche minuto, poi si rivolge a me: “Signora, lei ha ragione, ma col mio cellulare stavo parlando con la centrale operativa, perché il sistema di comunicazione interno al bus funziona male. Così sono costretto a usare il mio cellulare con il rischio che finisca il credito, per me è un grosso problema perché posso rimanere in mezzo la strada, senza comunicazione, mentre torno a casa”.

A questo punto, dalle parole del conducente si apre un scenario inaspettato, da incubo: “Vede signora, io abito ad Amatrice. Finirò l’ultima corsa in più, a mezzanotte circa. Devo fare oltre 100 km per arrivare a casa. Da Amatrice mi hanno detto che adesso c’è più di un metro di neve. Ora sta nevicando. La strada sarà in condizioni impraticabili”. Preoccupata, intervengo: “Scusi, ma non può dormire qui a Roma? Quelli della centrale non sanno dove lei abita e i rischi che corre?” Risposta: “Qui a Roma non conosco nessuno e quelli della centrale si preoccupano solo di assicurare le corse… e poi, se io stacco, la corsa viene soppressa. Chi porta la gente che aspetta là il bus a casa? C’è un altro motivo, io non posso dire di no anche perché, poi, se chiedo qualcosa, me la possono rifiutare”.

“E’ dura, signora, è dura! Capita che mi fermo con la macchina e dormo per strada, intirizzito dal freddo…” Tace, poi continua: “Una volta, nel buio della notte, mentre nevicava, non ho visto un montarozzo di neve davanti a me e ci sono finito dentro con la macchina. Per liberarla ho impiegato mezz’ora. Può immaginare come stavo dopo, bagnato, gelato dal freddo, senza poter ripartire. Con la mia famiglia allarmata che non mi vedeva arrivare… Noi ad Amatrice siamo abbandonati”. Silenzio, poi riprende a bassa voce: “E’ capitato, mentre viaggiavo verso Roma, l’evento del terremoto ad Amatrice. Ho fatto dietrofront. Sono arrivato al paese. Tutto era in rovina.

Corro verso casa, crollata! Sotto le macerie mia moglie e la figlia più piccola. Il grande, nella casa dei nonni, lesionata ma rimasta in piedi… Comincio a scavare, con la pala, con le mani, fino in fondo, fino a quando trovo mia moglie e mia figlia… giacevano lì, senza vita, morte… E’ dura, è dura!”. Tace. Poi riprende a parlare: “Sono stato tre mesi sotto shock, poi sono tornato a lavorare. L’attività, il lavoro mi distraggono dal pensare, dall’idea fissa”. Ancora silenzio. Poi, come rivolto a se stesso, prosegue, “Questa notte, quando faccio ritorno a casa, a un certo punto mi dovrò fermare. Dormire in macchina… Benché mio figlio si disperi se non torna a casa. Una piccola casa di legno che abbiamo avuto dalla Protezione Civile”. Intervengo, a mia volta scioccata: “Ma ha qualcosa per coprirsi in macchina? A che ora arriverà a casa? E quando si rimette in viaggio per essere di nuovo al lavoro alle 15.00?” Risposta: “In macchina ho una coperta. Domani mattina mi sveglierò gelato, arriverò a casa se la strada è percorribile, qui dormirò fino alle tredici, poi riprenderò il viaggio per Roma… E’ dura, è dura!” Io taccio sopraffatta. Arrivata alla fermata, prima di scendere, gli dico: “Lei è un bravo ragazzo!” “Grazie, mi risponde lui, anche lei è una brava signora”. Gli chiedo, per non ricordarlo anonimo: “Come si chiama?”. “Andrea, Andrea di Amatrice”.

 

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