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Una mamma americana


sabato 3 marzo 2007 di Arturo Capasso



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Marty tornò in Italia un altro paio di volte.

Ci venne a trovare con Don, il suo caro, inseparabile marito.

I capelli erano bianchi, si era ingrassata, aveva saputo da poco che aveva un tumore.

Il suo sguardo era sempre dolce, i suoi occhi pieni di luce.

Quel pranzo fu penoso.

Sapevamo tutti che sarebbe stato l’ultimo, che poi le cose sarebbero precipitate.

E così fu.

Lottò, lottarono, alla fine vinse lui, il cancro.

Piangemmo tutti alla brutta notizia, ci abbracciammo per farci coraggio.

Passò qualche anno e ricevemmo una foto: Don ci presentava la sua seconda moglie e ci comunicava che presto sarebbe venuto in Italia con lei.

Per carità, nulla da obiettare; la signora si presentava bene, aveva forse la sua stessa età e la decisione di avere una donna per vivere ancora e non lasciarsi prendere da malinconia poteva anche essere giusta e giustificata.

Poteva, ma non per noi.

Marianna ed io pensammo la stessa cosa separatamente e poi riuscimmo a capire perché in quella lettera c’era qualcosa che non ci piaceva, che non ci era piaciuto.

Ma come, noi t’immaginiamo ancora con Marty al tuo fianco e tu vieni a proporci un’altra signora?

E’ vero, di questi tempi succede di tutto e di peggio, che forse, anzi sicuramente, la tua era stata una giusta decisione: non restare più solo, prendersi una compagna.

Ma noi, noi che ci entravamo coi tuoi problemi, anche se sacrosanti?

Potevi imporci una tua scelta?

Chiedemmo in giro, quasi per avere un sostegno alla nostra tesi.

Ci fu risposto che non c’era nulla di male, che gli americani sono pragmatici, che quella era la realtà.

Noi decidemmo che quella realtà non c’interessava e che volevamo ricordare la coppia di amici così come l’avevamo vista e frequentata.

E decidemmo. Decidemmo che non avremmo incontrato Don con la sua seconda moglie.

Anche a costo di apparire retrogradi, antiquati, antipatici.

Per noi andava bene così.

Perché eravamo tanto legati a Marty?

E’ giunto il momento di raccontare tutta la storia.

Tre fratelli

Scese piano piano attraverso i cespugli e raggiunse il nostro giardino.

Si fermò e si mise a guardare.

Eravamo a giocare, Daniela ed io; dissi a mia figlia d’invitarlo a venire giù.

E così dopo pochi attimi era fra noi. Scarpette di gomma un po’ rotte, jeans trasandati e maglietta che usciva dai calzoni, lasciando vedere ora il pancino ora la schiena.

Dick aveva otto anni e parlava un bell’americano; sarebbe stato un ottimo insegnante per Marianna, che non riusciva a seguire chi - inglese o americano - parlava troppo in fretta.

Era venuto giù, come dire, in avanscoperta.

Dopo si fecero vedere gli altri due fratelli più grandi, Joseph e Don, che aveva lo stesso nome del padre.

Daniela poteva essere contenta: tre amici in un colpo solo ce ne restava qualcuno per le amichette.

E Dick si tirò appresso anche i genitori. Li invitai una domenica mattina.

Andammo in campagna, feci vedere i bei grappoli d’uva che scendevano dai mille rami, dalle canne messe di traverso e legate coi cutoli, fili tagliati dai pioppi e che da secoli sono utilizzati per legare le viti alle canne e ai pali.

Era una bella giornata, la conca di Marechiaro impazziva per le vove, piccole margherite selvagge giallissime. Pieno di fascino l’immenso specchio d’acqua, con Capri sullo sfondo e il Vesuvio sulla sinistra.

L’odore della terra, del concime messo sulla terra appena zappata, il canto che ogni tanto ci riportava ad un mondo agreste, sempre più lontano.

Carolina, la capra

Perché sto scrivendo queste cose? Ho ricevuto dai Campbell una lettera, anzi abbiamo ricevuto una lettera, mentre Don mi ha inviato un biglietto personale.

Marianna m’ha detto di non dimenticarmi di rispondere.

Dovrei scrivere che sono stato felice di avere avuto loro notizie, che ho trascorso delle buone feste e che tutto procede bene.

Ma no, non me la sento. Voglio invece ricordare il periodo da loro trascorso a Napoli. Un paio d’anni, non di più, ma forse per noi il periodo più bello della nostra vita.

Stavamo ancora costruendo la casa, Daniela aveva dieci anni, si giocava con la piccola capra. Chi le accarezzava le corna, chi il pelo. Lei cresceva, crebbe e la chiamammo Carolina. Si era quasi addomesticata, su comando prendeva la rincorsa e saltava.

Quando divenne grande, nessuno voleva sentir parlare di mangiarsi Carolina.

E così la regalammo. Non fu possibile fare ai ragazzi il discorso dell’amore che si trasforma in dedizione completa: Carolina ci vuole bene, noi ci nutriamo di lei. Un po’ come fu detto per quelli scampati al disastro aereo in America Latina, che mangiarono i corpi degli amici morti.

Ci furono accese discussioni morali, teologiche, pratiche. Forse fecero bene, i superstiti non avevano altra scelta e poi - in fin dei conti - l’Eucaristia non è mangiare il corpo del Cristo?

Una dedizione completa: Hoc est enim corpus meum.

Ma questo ragionamento così sottile i ragazzi non vollero accettarlo.

Carolina era per loro una compagna di giochi e non potevano farle la festa. Punto e basta. Anche questa volta un amore innocente era stato al di sopra di qualsiasi tortuoso pretestuoso presuntuoso ragionamento.

Il gioco del fazzoletto

Quasi sempre la domenica, dopo pranzo, tutti a giocare; non erano dei giochi eccezionali, ci si accontentava di poco. Il più gradito era il gioco del fazzoletto.

Tanti di qua e tanti di là, il fazzoletto al centro. Bisognava avvicinarsi, prendere la preda senza farsi toccare dall’avversario e scappare nel proprio campo.

Un piccolo tocco avrebbe obbligato il giocatore a lasciare il fazzoletto.

C’era un tifo indemoniato, con bisticci generazionali accaniti.

Le scenette più gustose erano offerte da Marty e Dick. La mamma non era affatto disposta a far vincere il figlio, la battaglia doveva essere ad armi pari.

Pertanto, se ci riusciva, tutta felice agguantava il fazzoletto e scappava.

Dick non poteva sopportare l’affronto e tornava mogio nel suo campo.

Gli occhi erano pieni di stizza, a volte rigati da lacrime.

Altre storie avvenivano con Joseph, che era il secondo. Lui sapeva di non essere il primo e di non essere neppure il più piccolo.

Qualsiasi divisione, spartizione oppure ordine di gioco, lo metteva sempre in seconda posizione.

Quando poi riusciva a vincere, i suoi occhi splendevano di grande gioia.

Era mite, affettuoso.

A scuola, a scuola

Al mattino capitava sempre che uno dei due, Don o Joseph, chiamasse Dick, per rallentare la sua corsa a prendere il pulmino scolastico.

Non era in ritardo, ma amava correre, correre, andare avanti.

Uscivano di casa alle sette e mezzo in punto, mai un minuto prima o dopo.

Si poteva regolare l’orologio al loro passaggio, come erano soliti fare i compaesani dello sfortunato protagonista dell’ Angelo Azzurro, prima professore modello, poi uomo distrutto.

Come faceva Marty a far essere precisi i suoi tre maschi per tutto l’anno scolastico? Un anno scolastico che noi manco ci sogniamo, giacché iniziava ad agosto e finiva a giugno, con poche feste, nessuna assemblea di genitori, professori, ragazzi, niente scioperi o interruzioni per vermi nelle aule o allagamenti improvvisi.

Niente di tutto questo. Solo studio.

Una famiglia modello

I Campbell. I loro pranzi, i loro cocktails erano deliziosi.

Gli inviti ai cocktails erano precisi: dalle diciannove alle ventuno.

Se uno arrivava in ritardo, si perdeva il piacere di conoscere nuova gente .

Un ammiraglio, scherzando, comunicò al padrone di casa che sarebbe andato via un poco prima, aggiungendo: Se no, che razza di ammiraglio sono?

Quando venivano da noi per un pranzo, si assisteva ad un vero rito. All’ora concordata vedevo spuntare dalla curva Dick, poi Joseph e Don, infine Marty e Don.

La cosa più simpatica era la capigliatura dei tre fratelli: capelli pettinati e lucidati. Non mancavano giacca e cravatta.

Simpaticissimi. Forse avrebbero preferito vestire casual e sentirsi liberi, ma erano consci dell’ufficialità del momento ed accettavano il sacrificio.

Ora anche loro sono cresciuti. Le loro foto mi hanno fatto tenerezza.

E come sono cresciuti “dentro”? Un impatto con un mondo diverso, altre amicizie.

I loro genitori si vogliono un bene infinito; Marty è stata troppe volte lontana dal suo uomo, che ha combattuto al servizio del suo Paese.

E i ragazzi sono lo specchio di questo amore, della serenità che sta in loro e che stava nella loro casa sulla collina.

Ogni cosa a suo posto, una musica dolce, un calore pieno d’affetto.

Sono andati via e li abbiamo persi. Ogni tanto ci scriviamo, forse ci rivedremo, ma gli anni di vera spensieratezza e semplicità sono passati, almeno per noi.

Perciò Marianna a volte è malinconica.

Pensa ai Campbell, pensa a sua figlia piccola, pensa a Pago, il cocker sornione morto tragicamente, pensa all’altro cane, un lupo femmina che però aveva un nome maschile, Igor.

Quando partorì, i ragazzi misero un bel fiocco sulla cuccia. Igor li lasciava giocare coi suoi piccoli, non era affatto gelosa.

A sera facevamo dei falò con gli aghi di pino e altra legna secca raccolta nella “giungla”. Dick e Don si bisticciavano sempre, perché si contendevano il governo della fiamma, che andava verso l’alto e scaldava i nostri corpi e i nostri cuori. Fissavamo il turno di guardia e cominciava Joseph, che era stato il più buono.

Venne l’estate e Dick imparò a nuotare. Scese tutto bardato, con piccole pinne colorate, maschera, braccioli, salvagente. Era uno spasso, vederlo in acqua.

Me lo trovavo sempre vicino, a mare, in campagna, nella “giungla”. Pronto a scattare, a prendere la zappa, a tagliare l’erba, a tirare la pompa per l’acqua e a ripiegarla dopo, con cura.

Quando si avvicinò il momento della partenza gli chiesi: “Dick, vuoi restare con noi?” Rispose saggiamente che gli sarebbe piaciuto, ma solo per un po’.

Ora Don sta facendo carriera, sono sicuro che diventerà ammiraglio.

Facemmo un pranzetto e concludemmo con un augurio. Io brindai “all’ammiraglio”, lui molto affettuosamente “ al poeta”. Sapeva che avevo scritto delle poesie e che ci tenevo a pubblicarle.

Ora sulla spalliera del letto di Daniela c’è il bel leone lavorato con lana spessa da Marty: fu il suo magnifico regalo di Natale.

Ecco, come potevamo sostituire quella mamma americana, così viva nei nostri cuori?