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IL CASO WHIRLPOOL IN ITALIA E QUELLO RENAULT/FCA IN FRANCIA


venerdì 7 giugno 2019 di Sandro Meardi

Argomenti: Economia e Finanza


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Ovvero due modi diversi d’intendere e tutelare l’interesse nazionale contro l’assalto delle multinazionali e... come ti aggiro l’aiuto di Stato.

C’erano una volta le multinazionali brutte, sporche e cattive. Erano lo spettro, molto più reale e meno ideologico, del capitalismo che si aggirava per l’Europa. Poi è arrivata la globalizzazione e, con essa, tutto l’armamentario della lotta di classe e della difesa dei lavoratori contro i padroni, divenuti quest’ultimi improvvisamente imprenditori da attrarre e incentivare ad investire nel nostro Paese, è finito in soffitta.

Alla metamorfosi però, mancava ancora una fase per dirsi completata. Il sigillo arrivò agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, con l’Unione Europea e con il Trattato di Maastricht, sorti sulle ceneri della Comunità Europea. I vincoli e i parametri economico-finanziari, furono talmente stringenti da far cedere politicamente, economicamente e finanziariamente, parte della sovranità nazionale agli Stati membri, o così c’è stato raccontato, per alcuni di essi. La cicuta, anche per gli irriducibili, poteva però ormai dirsi bevuta.

In nome e per conto del sovrano libero mercato abbiamo così assistito allo sparire dalla geografia dell’Italia imprenditoriale del boom economico del secondo dopoguerra industrie, aziende e marchi storici che avevano fatto grande il made in italy nel mondo. Un processo storico ineluttabile e irreversibile si dirà. Una macro economia globalizzata non poteva non mangiarsi, o per meglio dire divorare, l’arcipelago di piccole e medie imprese da sempre e ancora oggi, nonostante tutto, spina dorsale del motore produttivo italiano.

Eppure qualcosa non torna. Uno Stato forte, politicamente inteso come espressione dei propri rappresentanti da inviare sui tavoli internazionali sui quali si consuma il proprio destino e quello dei suoi cittadini poteva, doveva e ancora oggi fare di più e meglio. Un esempio emblematico.

In questi giorni, l’annunciata fusione nel settore automobilistico tra il Gruppo FCA (Fiat Chrysler Atuomobile) e il Gruppo Renault/Nissan, è saltata perché la Francia, poco più che simbolica azionista di quest’ultimo (15%), si è messa di traverso. Le sue condizioni (presenza di una sede operativa in Francia, rappresentanza dello Stato Francese nel consiglio d’amministrazione della futura multinazionale e garanzie per i siti industriali e l’occupazione sul suolo d’oltralpe) affinché un gioiello di famiglia non resti com’è e dov’é, sono state ritenute troppo esose e non negoziabili da parte di FCA.

Ora magari la colpa da parte dei francesi sarà data ai giapponesi per le mancate nozze, ma tant’è che John Helkann, Presidente del colosso italo-americano costruito dal compianto Marchionne, i confetti è ben lungi dal poterli mangiare.

Spostiamoci adesso in Italia. Al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), titolari del quale sono stati negli ultimi 15-20 anni i rappresentanti di Governi prima di centro-destra e poi, negli ultimi 10, di centro-sinistra (con la breve parentesi del Governo tecnico Monti), il buon Luigi Di Maio, responsabile dello strategico Dicastero, si trova in questi stessi giorni ad affrontare un difficile negoziato con la Whirlpool, (multinazionale americana che ha assorbito illo tempore la nostrana Indesit), per scongiurare la chiusura dello stabilimento di Napoli e la cassa integrazione per centinaia di lavoratori partenopei.

E, a quanto sembra, stando alle sue dichiarazioni, l’unica freccia al suo arco per vincere questo difficile negoziato e far desistere il gigante americano degli elettrodomestici dai suoi propositi di chiusura per delocalizzare altrove, è quello di chiedere indietro le decine di milioni di euro sganciati dallo Stato italiano per convincere Whirlpool a rilevare l’Indesit. Altro che debito pubblico troppo alto, spread, stabilità politica dei Governi, volatilità dei mercati azionari e tigri asiatiche d’assalto. Gli investitori stranieri in Italia ce li compriamo o, per dirla più elegantemente, siamo noi che investiamo su di essi a suon di soldoni e con scarsa lungimiranza.

Se poi dietro queste prassi, vietate dall’Europa quando applicate alle aziende nazionali in quanto aiuto di Stato, ma consentite per le benefattrici multinazionali che “salvano” le aziende decotte, ci siano contropartite di rilevanza penale, questo lo lasciamo indagare alle Procure della Repubblica. Stando alle pratiche sugli scaffali stracolmi degli Uffici giudiziari però e che spesso salgono alla ribalta delle cronache, qualcosa di più di un sospetto è lecito nutrirlo.

Due esempi, si dirà, quello francese e quello italiano, di due realtà produttive diverse che accadono in due Paesi diversi. Proprio questo è il punto centrale. Due Paesi diversi con un diverso modo d’intendere, e modalità diverse di difendere la propria sovranità nazionale che ancora oggi non è una parolaccia. La prossima volta, se ci sarà occasione, metteremo a confronto dei due Stati anche il modo di gestire, o far gestire, le proprie autostrade. La tragedia del ponte Morandi a Genova, non l’abbiamo dimenticata.

 

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