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Confessioni di una gallina


domenica 6 maggio 2007 di Arturo Capasso



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Nacqui in un paese alla periferia della città. Ero molto contenta d’essere venuta al mondo. Potevo razzolare con le mie sorelle, i fratellini e i molteplici ospiti del grande pollaio. Il cibo era ottimo ed abbondante. Là c’era tutta campagna; la padroncina al mattino apriva la porticina e ci lasciava liberi , noi tutti contenti respiravamo l’aria frizzante.

Potevo essere fiera: non ero nata in un’incubatrice - come tante - né avevo bisogno di cibo con vitamine speciali, o di calore per il freddo. Là non faceva freddo, il sole ci riscaldava generosamente. Era per me un piacere razzolare sull’aia e fare dei piccoli fossi nella terra ancora umida per accovacciarmici , come se dovessi deporre l’uovo.

Nel nostro pollaio c’era anche un bel gallo, che cantava spesso ed era sintonizzato con gli altri galli della valle. A volte, però, diventava noioso, specialmente quando noi galline volevamo riposare e lui continuava ad infastidirci.

Tutto sommato la vita trascorreva facile e semplice, senza tante complicazioni. Mangiavo quanto volevo, spesso andavo in giro, ero in buona compagnia. Vivevo, ero contenta e non mi domandavo perché vivevo. Ero ancora piccola e certe domande non me le ponevo.

La padroncina ci portava della roba gialla a forma di chicchi e del pane inzuppato. A volte c’erano tante cose mescolate e non ci capivo molto; poi venni a sapere che erano gli avanzi del giorno prima. Comunque, si viveva bene e l’aria di campagna mi giovava.

Un giorno prelevano due nostre compagne e le portano via. Le poverette strepitano, si dimenano, non c’è niente da fare. Le prendono così, malamente, e le legano con un rozzo filo di spago doppio, portandosele a testa in giù, come i capponi di Renzo. Provammo timore e dispiacere: si stava così bene tutte insieme! Oltretutto il timore era giustificato: e se fosse capitato anche a noi? Pensai a Tolstoj e al bellissimo racconto Morte di Ivan Ilic: Tutti gli uomini sono mortali, io sono uomo, io devo morire. E se fosse diverso per me? Oltretutto, ero una gallina. Ben presto m’accorgevo che l’argomento faceva acqua da tutte le parti e diventavo triste. Quando volevo riprendermi pensavo che non sarebbe stato carino mandarmi via.

E invece successe, successe proprio a me.

Quel giorno la padroncina non la vidi, brutto segno. Di solito controllava se avevamo l’uovo e più tardi passava a prenderselo, bello caldo caldo. Ed io sì che ne avevo fatte, di uova. Anche per i vegetariani, che mangiano solo uova di galline felici; e noi siamo felici perché razzoliamo...Ma non si rendono conto della fine che ci spetta (ed aspetta) ?

Il marito della signora mi prende e mi porta nella sua auto. Andiamo verso la città e dopo poco entriamo in un cortile. Apre il portellone mi prende sale le scale bussa alla porta entra saluta mi consegna ad una donna sono buttata in un angolo della cucina ancora tutta legata. Dopo un paio d’ore quella donnaccia torna e mi dà uno strattone, perché m’ero permessa di sporcare il pavimento; ma come potevo fare altrimenti? Mi dissi: è meglio non discutere con certa gente, tanto non capirebbe.

Mi trascinò verso un piccolo pollaio, dove stavano altre due galline: così eravamo in tre. Eravamo in tre, ma ora sono rimasta sola. Qualche giorno fa ho sentito le mie nuove compagne che schiamazzavano e potevo vedere come le forbici penetravano nelle loro gole e ne usciva sangue... Ancora quella donnaccia a tagliarle a pezzi che poi riponeva a terra. Sono state bollite, messe al forno, mangiate. Tutti questi particolari mi sono stati riferiti dal bravo bambino che abita qui e che è il nipote dei padroni di casa. Ieri mi hanno dato pane e brodo di gallina. Per solidarietà non l’ha mangiato; la donnaccia ha ripreso il tutto e indispettita l’ha gettato via. Sono rimasta digiuna.

Le cose vanno male. Qui nel pollaio non c’è un po’ di terreno e mi lasciano sempre chiuse dentro. Ho saputo che anche le altre non se la passano bene, con una terribile malattia che sta in giro ed è molto contagiosa. E a noi che importa? Prima o poi dobbiamo morire. Cosa faccio tutto il giorno? Vado avanti e indietro, come una stordita. Non c’ è neppure il diversivo di fare l’uovo, perché non è la stagione adatta. E forse per questo le mie compagne sono state uccise; e forse per questo io subirò lo stesso trattamento.

Più giorni passano e più divento triste. Me ne sto accovacciata in questo brutto pollaio, toccando appena appena i semi di pomodoro e il granturco, che tanto mi piacevano. Non mi va più niente. Penso tutto il giorno, giacché non ho altro da fare. E penso che sto diventando pessimista.

Prima ti fanno nascere, poi ti mettono ad ingrassare e ti prendono le uova. Quando sei diventata abbastanza utile alla pentola, ti fanno la festa. Vivi per il loro tornaconto e s’infischiano di ciò che vorresti fare o dire. Mi sono chiesta, in uno di questi tristi giorni quando tutto intorno c’erano vocii e suoni da tante televisioni tutte sintonizzate su canali diversi, mi sono chiesta se questa è vita e se è giusto che noi dobbiamo solo e sempre servire. Hanno scritto libri e libri sulla missione del dotto, mai uno sulla missione della gallina.

Mi lasciano in queste condizioni, senza neppure il sostegno di un bel gallo. Quasi quasi avrei deciso di farla finita; ma poi ho pensato che - tutto sommato- non ne vale la pena.

Tanto, fra non molto , saranno loro a farmi la festa.

 

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