Vivendo in un’epoca in cui spesso la nostra libertà ci sembra oscuramente minacciata, fa bene all’anima di tanto in tanto immergersi nella poesia e ritornare a quei poeti che lottarono contro ogni forma di oppressione e tirannia, auspicando una positiva, futura rigenerazione dell’Umanità.

Tale fu Percy Bysshe Shelley (1792- 1822), poeta romantico, spirito libero, anticonformista e rivoluzionario, ma allo stesso tempo troppo sensibile e instabile, sempre tormentato da contrastanti stati d’animo rintracciabili sia nella sua breve e intensa vita che nelle numerose opere (come già evidenziato dalla sottoscritta in un precedente articolo su Scena Illustrata). Bisogna, inoltre, considerare due fasi che contraddistinguono il suo pensiero: l’una razionalistica e illuministica fino al 1815 sotto l’influsso delle idee illuministiche e del filosofo William Godwin (padre di Mary, sua seconda moglie), l’altra più chiaramente romantica in cui prevale l’interesse per la cultura greca e in particolare per Platone.
Malgrado la suddetta distinzione, Shelley in fondo fu sempre un romantico durante tutta la sua vita e già sotto la sovrastruttura razionalistica della prima fase erano presenti i germi di quello che egli definì “impero dei sentimenti” che esploderà più tardi.
In “Queen Mab” ad esempio, poema composto nel 1813 sotto l’influsso del Godwin e della sua teoria della perfettibilità umana, immagina che la regina delle fate, Mab, mostri a Ianthe le epoche passate dell’umanità piene di errori, follie e violenze che tuttavia spariranno quando la ragione condurrà l’uomo a libertà, virtù e fratellanza. Benché esalti la ragione, in un verso egli scrive: “Yet every heart contains perfection’s germs” (Tuttavia ogni “cuore” contiene i germi della perfezione).

La lotta contro la tirannia è presente anche in “The Revolt of Islam” (1817), in cui Laon e Cynthia combattono inutilmente contro un crudele tiranno finendo arsi vivi sul rogo, ma sperando che il loro esempio possa incoraggiare altri a continuare la lotta per la libertà. Qui c’è in parte un atteggiamento meno ottimistico poiché, come accadde a molti poeti romantici, anche Shelley provò delusione e amarezza per il crollo degli ideali rivoluzionari dopo il regime del Terrore e l’imperialismo di Napoleone.
Il poeta, tuttavia, sempre in balia dei suoi stati d’animo, ritorna con entusiasmo al tema della libertà e alla fede nella rigenerazione dell’Umanità nel 1818 quando comincia scrivere un dramma lirico, “Promethus Unbound”, da molti considerato il suo capolavoro, in cui narra la storia del trionfo di Prometeo su Giove, simbolo della vittoria di ragione, amore e libertà su tirannia e oppressione.

Ispirandosi al “Prometeo Incatenato” di Eschilo, narra la storia di Prometeo che per aver donato il fuoco agli uomini, viene punito da Giove e incatenato a una roccia del Caucaso dove un’aquila gli divora continuamente il fegato. L’eroe (simbolo dell’Umanità) sopporta tutti i tormenti sapendo che cesseranno allorché Giove (simbolo del Male) sarà cacciato dalle forze del Bene, come predetto da una profezia sulla quale riesce a mantenere il segreto, malgrado torture e lusinghe da parte di Giove. La tragedia shelleyana, diversamente da quella di Eschilo, non si conclude con la riconciliazione tra Prometeo e Giove, ma con la caduta del tiranno che consente a Prometeo di riconquistare la libertà (in un’ ottica tipicamente romantica). Demogorgone (simbolo dell’Eternità, figlio di Giove e Teti) alla fine riuscirà a detronizzare Giove ed Ercole (simbolo della Forza) libererà Prometeo che sposerà Asia (simbolo della Natura), dando inizio al regno del Bene e dell’Amore sulla Terra. Ecco alcuni versi della parte finale:
To forgive wrongs darker than death or night
To defy Power, which seems omnipotent;
To love, and bear; to hope till Hope creates
From its own wreck the thing it contemplates;
Neither to change, nor falter, nor repent;
This, like thy glory, Titan, is to be
Good, great and joyous, beautiful and free;
This is alone Life, Joy, Empire, and Victory.
Come si legge nella biografia di Shelley, egli in effetti aveva iniziato a studiare letteratura e filosofia dell’antica Grecia con i suoi amici T. L. PeacocK e T. J. Hogg che definì quel periodo come “a mere atticism”, mentre Shelley manifestava continuamente la sua ammirazione per arte, letteratura, pensiero filosofico elaborati dagli antichi greci in piena armonia con la Natura. Per un difensore delle libertà umane come lui, inoltre, la Grecia era un paese che ai suoi tempi lottava per libertà e indipendenza contro la dominazione turca (a ciò dedicò due poesie: Ode to Liberty, Hellas). Fu però soprattutto l’abbagliante luce spirituale di Platone a influenzare il suo pensiero nella seconda fase: cominciò allora a intravedere al di là del sensibile una realtà perfetta, eterna, immutabile che lo induceva spesso ad una “evasione” dal mondo nei momenti di delusione e amarezza.
Come il prof. Elio Chinol afferma nel suo libro “P.B.Shelley”, la presenza di due tendenze legate agli stati d’animo si ripercuote anche sulle opere, per cui l’una lo porta a sperare nella possibilità di un mondo rigenerato, in un paradiso terrestre (Queen Mab, Prometheus Unbound, Hellas, Epipsychidion ecc.), l’altra invece prende il sopravvento quando la vita lo delude e sogna quindi una fuga dalla realtà, oppure vede la morte come un mezzo per raggiungere una Bellezza perfetta e trascendente (Hymn to Intellectual Beauty, The Magic Plant, The Witch of Atlas, Adonais, scritto per la morte di Keats, The Triumph oh Life, ultimo poemetto composto prima di morire ). Nelle sue bellissime liriche si rilevano le stesse caratteristiche, in particolare nel vagheggiare un perfetto ideale femminile.

Molti sono i simboli che rappresentano la sua “platonica” fuga dal sensibile, come boat (barca), isle (isola), the dream of life (il sogno della vita); altre termini invece simboleggiano la barriera che separa il sensibile dall’intelligibile, come veil (velo) o mask (maschera), cave (caverna) e vengono usati dal poeta in modo ricorrente per descrivere lo stato dell’anima incarcerata in un corpo e costretta a vivere in un mondo di ingannevoli ombre dal quale essa anela a fuggire, come nella ben nota allegoria platonica della caverna.
Ecco in breve alcuni versi: “My soul is an enchanted boat/ which, like a sleeping swan, doth loat/ upon the silver waves of thy sweet singing” (To One Singing), oppure “It is an isle under Ionian skies/ beautiful as a reck of paradise (Epipsychidion), e ancora “Death is a veil which those who live call life/They sleep and it is lifted” (Prometheus Unbound)).
Ci sembra giusto citare infine M. Praz che scrive in “Storia della letteratura inglese”: - Possente è lo slancio issionico del poeta, il cui canto sembra innalzarsi a spirale, per volute d’ immagini, dilatarsi in cerchi sempre più vasti, confondersi in uno splendore abbacinante -. E per descrivere tale slancio verso l’alto, forse i versi più appropriati sono quelli di “To a Skylark”, in cui l’allodola diventa un luminoso simbolo di bellezza, armonia e libertà. Il suo innalzarsi sempre più in alto nel cielo, come una nuvola di fuoco, richiama alla mente l’anima alata di Platone (descritta nel Fedro):
Hail to thee, blithe Spirit….
Higher still and higher
From the earth thou springest,
Like a cloud of fire…