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IL SELVATICO NEL CARNEVALE SARDO


mercoledì 10 febbraio 2021 di Nica Fiori

Argomenti: Società


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Anche quest’anno, almeno sul calendario, arriva il Carnevale. In attesa di tempi migliori, mi piace rievocare una caratteristica carnevalesca, ovvero l’uso della maschera, la cui funzione potrebbe essere, secondo l’etnologo francese Jean Laude, quella di “riaffermare, a intervalli regolari, la verità e la presenza dei miti nella vita quotidiana”.

È anche grazie alle maschere che possiamo compiere un viaggio attraverso il patrimonio materiale e immateriale di un popolo, come il nostro, portatore di conoscenze e sentimenti da trasmettere alle generazioni successive. Per motivi di spazio, limito il mio discorso ad alcuni paesi della Sardegna, dove sopravvivono riti antichissimi e misteriosi, preesistenti alla cristianizzazione della popolazione, che fanno uso di strane maschere, indossate esclusivamente da uomini, in un contesto di danze e suoni suggestivi.

A Mamoiada, un paese montano della Barbagia noto per il suo carnevale, quello che colpisce maggiormente è l’aria tetra dei “Mamuthones”, che irrompono all’improvviso nella strada principale, muovendosi a salti cadenzati. Indossano maschere facciali in legno nero, dai lineamenti mostruosi volutamente marcati, la mastruca pure nera in pelle di montone, un insieme di numerosi campanacci (25 kg di peso) sulla schiena e un fazzoletto in testa. Cupi e lividi, con la loro sinistra presenza creano un forte contrasto con l’allegria della folla riunita in piazza a danzare il ballo tondo o a bere vino, e soprattutto con gli “Issocadores”, caratterizzati da una maschera facciale bianca e dal corpetto rosso. Questi ultimi portano un elemento più tipico del carnevale, la “soca” (una specie di lazo), con cui cercano di afferrare scherzosamente gli spettatori, soprattutto le ragazze, in un’atmosfera di festa paesana.

Il rituale che porta alla trasformazione in Mamuthone inizia con la vestizione, le cui fasi sono seguite con lo scrupolo e le modalità di una cerimonia religiosa, in un clima di arcana attesa, culminante nel momento in cui l’uomo con la maschera sul volto assume l’identità di un essere straniante.

Questa maschera per la lugubre rigidità dei tratti potrebbe essere messa in relazione con l’anima dei morti, e quindi risalire ad antichi rituali agrari che vedevano nel rapporto con i morti il rinnovamento delle forze vitali della natura. Nonostante la distanza geografica, mi viene spontaneo pensare a Shakespeare, che come uomo di teatro aveva una certa dimestichezza con le maschere.

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Mamuthones di Mamoiada

Nell’Enrico IV egli scrisse: "Morire significa essere una maschera, perché chi non ha la vita di un uomo è soltanto la maschera di un uomo". Il volto nero del Mamuthone potrebbe rievocare il mondo infero, ma c’è anche chi ha voluto vedere in questa maschera l’uomo selvatico, una simbiosi tra uomo e animale, le cui azioni e i cui caratteri tendono a sfuggire a qualunque norma sociale. L’individuo dietro la maschera perde la sua identità originaria di pastore, e diventa un "diverso", acquistando una connotazione negativa, quella di "pecora nera", come afferma lo studioso di tradizioni popolari Mario Atzori in “Il selvatico nelle tradizioni sarde. Uomini, maschere ed esseri fantastici” (Sassari 1988).

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Thurpos di Orotelli

A Orotelli, un altro paese agricolo pastorale del Nuorese, vi sono i “Thurpos”, aggiogati come animali in una parodia grottesca del duro lavoro quotidiano. Hanno il viso annerito di fuliggine e indossano il cappotto con cappuccio in orbace, tipico dei pastori sardi, e campanacci per bovini appesi al collo. Cercano di afferrare e legare con delle funi alcune persone che assistono alla loro sceneggiata, ma chi viene preso può ritornare libero se accetta di bere con loro.

Un’altra maschera tipica di Orotelli, tornata in auge da qualche anno, dopo che era sparita per decenni, è “s’Eritaju. Coperto da un saio biancastro e con il viso nascosto da una maschera amaranto, porta sul petto una collana composta di pelli di riccio (erittu), con i cui aculei cerca di pungere sul seno, abbracciandole, le donne che incontra. Una sorta di allusione alla perdita della verginità femminile, ovvero alla penetrazione con perdita di sangue, che potrebbe avere attinenza con i riti propiziatori di fecondità o di iniziazione sessuale.

E qui il pensiero corre alla festa dei Lupercali, che si teneva a febbraio a Roma (fino al V secolo d.C.) sul Palatino, dove i celebranti, detti Luperci (lupi-capri) correvano nudi e frustavano con una striscia di pelle di capro le donne giovani, che, lungi dal sottrarsi, ricercavano la frusta per essere simbolicamente “penetrate” dal capro e diventare così fertili.

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Carnevale di Ottana

Anche nel carnevale di Ottana, sempre in provincia di Nuoro, compaiono delle maschere in legno dall’aspetto orrido e fantastico al tempo stesso. Si tratta dei “Mèrdules” (bovari, letteralmente “merdosi” perché a contatto con gli escrementi animali) e dei “Bòes” (buoi). Le prime riproducono volti grotteschi, a volte con enormi protuberanze nasali di manifesto simbolismo fallico, e quindi connesse con il culto della fertilità. Le seconde hanno volti taurini con vistose corna e sono tenute a bada dalle prime con un bastone.

Anche in questo caso, come a Mamoiada, l’abbigliamento è completato da una mastruca di pelliccia bianca di pecora e dai soliti campanacci. Queste maschere, che raffigurano l’animalesco, il selvatico, il demoniaco, si oppongono agli umani, che rappresentano l’ordine del quotidiano rispetto al caos fittizio e temporaneo del carnevale. Scrive a questo proposito Mario Atzori: “Sul piano operativo del vivere quotidiano le paure e le crisi indotte dalla credenza nell’esistenza del diverso, del selvatico ostile e aggressivo impongono risoluzioni e tecniche culturali per recuperare tranquillità.

In diversi casi ciò è ottenuto ridicolizzando lo stesso selvatico, facendo la parodia del mostruoso e trasformandolo in maschera carnevalesca”. La simbiosi uomo-animale, ovvero un essere considerato diabolico e selvatico, è presente nel folclore sardo in alcune figure, tra cui quella del “Boe muliàche” (bue muggente). Secondo la credenza popolare si tratta di un uomo che, per volere divino (perché è il suo destino) o al contrario demoniaco, di notte si trasforma in bue ed erra muggendo, rotolandosi per terra e provocando la morte di chi disgraziatamente lo incontra sulla sua strada, mentre di giorno torna a essere normale (come succede al lupo mannaro, la cui credenza è diffusa un po’ dappertutto in Europa).

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Boes di Ottana

In questo caso l’archetipo potrebbe essere il mitico Minotauro di Creta, un uomo con la testa di toro, o anche un’altra figura con corpo taurino e testa umana, raffigurata in un bronzetto nuragico noto come “Toro androcefalo di Nule”, rinvenuto a Osidda, nella località Su Casteddu di Santu Liséi, e conservato nel Museo archeologico di Cagliari.

Il cantautore sardo Piero Marras racconta con suggestive parole la leggenda del “Boe muliache” nella sua omonima canzone: “A s’iscuru Compare mi che ‘ortat in Boe, borro che•i su mare e gherro a malu proe” (Al buio Compare mi trasforma in Bue, muggisco come il mare e combatto come un cattivo prode). (…) “Cando arveschet die so unu cristianu, siat chi fetat nie o sole su manzanu, ma cando torru a Cuddu sos balentes si trèmene, sa pedde atuddu atuddu, malaitu su sèmene” (Quando sorge il giorno sono un cristiano, sia che faccia neve o sole il mattino, ma quando ritorno ad essere Quello, anche i valorosi tremano, con la pelle d’oca, maledetto il seme).

Interessante ci appare la chiusura del testo di Marras: “Non m’ammento ne tempus e ne logu cando intro cun Dimònios in giogu” (Non ricordo né tempo e né luogo quando entro con i Demoni in gioco).

“Entrare in gioco con i Demoni” è un modo di dire riferito a chi si muta in demonio, trasformando il gioco in guerra. Nella tradizione sarda (e non solo) probabilmente i Demoni sono sempre esistiti, prima che la Chiesa cristiana li trasformasse nei diavoli dell’Inferno. La presenza delle corna nelle raffigurazioni diaboliche ci induce a pensare che si siano voluti trasformare in diavoli alcune divinità semianimalesche. Pensiamo in particolare ai Fauni e ai Satiri del mondo greco-romano, ma anche allo stesso Toro, simbolo di fecondità nelle più antiche civiltà agricolo-pastorali, la cui uccisione simbolica tipica del mitraismo (tauroctonia) doveva essere demonizzata nel cristianesimo e sostituita con il sacrificio di Cristo.

In Sardegna gli astri della costellazione del Toro (in sardo antico Boe) erano sicuramente venerati già a partire dal neolitico. Non è un caso che nelle antiche tombe ipogee dell’isola, le cosiddette “Domus de janas” (letteralmente case delle fate), sia frequente la raffigurazione di protomi taurine, mentre in altri sepolcri monumentali, detti Tombe dei Giganti, la parte frontale della struttura è delimitata da una sorta di semicerchio, che ricorda proprio le corna di un toro. E nei bronzetti nuragici ritroviamo le corna negli elmi dei guerrieri e nei copricapi degli antichi sacerdoti, il cui ricordo potrebbe essersi trasmesso ad alcune maschere carnevalesche.