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Il mio amico Anatolij


mercoledì 21 febbraio 2007 di Arturo Capasso



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La pioggia lenta continua rende ancora più caotica la strada del lungomare.

Con tutti gli altri problemi di affanni quotidiani, torni con la mente al passato, a tanti anni fa

E ricordo Vickov Anatolij, tale era il suo nome, che mi prese in consegna quando nel ’61 arrivai a Mosca per studiare in quella Università.

Anche lui era ricercatore, aveva iniziato da un anno il suo dot¬torato.

Longilineo, volto scarno, capelli castani, calvizie incipiente, sorriso accattivante.

Indossava sempre un cappotto lungo scuro, ormai consunto, acquistato al kommissionnij magazin.

Il traffico è ancora impazzito, l’andare lentissimo.

Due vigili segnano le targhe dei furbi che sono passati per sotto il tunnel, guadagnando una manciata di minuti.

Con una buona mezza ora di ritardo si arriva.

Ora bisogna stare attenti alle pozzanghere in agguato.

Quelle vicino al marciapiede, quelle lungo il serpentone, al cen¬tro e sotto l’altro marciapiede.

E devi decidere rapidamente se conviene schi¬vare prima l’acqua che ti sporcherà e bagnerà i pantaloni per tutta la giornata, o se non è meglio sgusciare fra il tram, una motoretta ed un camion.

Anatolij.

Alloggiava in un altro blocco dell’Università.

Veniva spesso a trovarmi, quasi certamente doveva riferire sulla mia permanenza.

Un pò chiuso, forse solo.

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Mosca - Piazza Rossa

E forse proprio per questo bussò presto alla mia porta e mi invitò ad andare nella sua cameretta.

Mi offrì della vodka ed aprì con molta cura una tavoletta di cioc¬colato.

Era il suo compleanno e voleva festeggiarlo con me; mi dichiarai lieto della scelta.

Prendemmo il tassì, girammo un po’ e all’ora del pranzo andammo al "Ciaika " , un ristorantino che stava su un traghetto tirato a secco sulla riva del fiume.

Anatolij fu un simpatico anfitrione. Il pranzo adeguato, come il caso richiedeva.

Cento grammi di vodka, vino rosso, caviale, borsc, ( la zuppa di cavoli), gelato.

Il pomeriggio doveva essere impiegato per stare un po’ allegri, magari in compagnia allargata.

Ma preferimmo fermarci, tor¬nare a casa e poi ognuno per conto proprio.

Come fu felice Anatolij quando in estate gli presentai alcune ragazze svedesi che vennero per un seminario.

Non riusciva a spiegarsi come avessero tanta libertà d’andare in giro per il mondo.

Ed io a ripetergli che per l’Occidente era una cosa norma¬le .Cosa che speravo anche per lui e per il suo Paese . Gradì molto il piccolo pacco di gillette come mio regalo per il suo compleanno.

Piccole cose, ma tanto difficili a trovarsi.

Ricordo ancora il caro Anatolij quando mi accompagnò alla stazione; sarei andato in treno fino ad Odessa e poi mi sarei imbarcato per tornare a casa.

Mi aiutò a sistemare nel vagone i cinquantatre volumi della Bolshaja Sovetskaja Entsiklopedija, che tutt’ora è per me un prezioso strumento di consultazione.

Prima ho accennato alle pozzanghere che si devono schivare lungo la via Marina.

E mi sono ricordato delle pozzanghere che all’inizio di primavera ricoprivano le strade intorno all’Università, quando la neve cominciava a sciogliersi.

Io preferivo quelle pozzanghere.

Appartenevano ad un mondo che volevo costruirmi e che lasciai come uno stupido

Ciao, Anatolij, amico carissimo.

 

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