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La Rappresaglia - Roma 23 - 24 marzo 1944


giovedì 1 maggio 2014 di Anna Maria Casavola

Argomenti: Guerre, militari, partigiani
Argomenti: Storia
Argomenti: Italia


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Ogni anno, da 70 anni, queste due date e gli eventi che richiamano, aprono una ferita mai totalmente risanata e rinfocolano polemiche in una città che ha ancora la memoria divisa.

Su tutto ciò si è già scritto molto, per cui penso inutile ritornare a discutere sull’opportunità o no di quell’ azione di guerra (così definita da una sentenza del Tribunale civile di Roma in data 9,6,1950, essendo dal 13 ottobre 1943 l’Italia di Badoglio ufficialmente in guerra contro la Germania e i partigiani riconosciuti come propri combattenti) che è la premessa della rappresaglia, mi limiterò a mettere insieme delle testimonianze, di cui la prima è totalmente inedita e l’ho trovata in una lettera di un ebreo, scritta a ridosso degli avvenimenti di cui parla. Si tratta di.Davide Arnaldo Terracina detto Dino che. abitava al quartiere Tritone, via Rasella

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Via Rasella

Via Rasella è il luogo prescelto per l’attacco da parte di un GAP partigiano a un reparto della Divisione Bozen che di lì abitualmente transitava: tra le 15 e le 16 ogni giorno Si. trattava di riservisti altoatesini che avevano optato per la Germania ed erano impiegati a Roma con funzioni di polizia. Non erano SS e portavano la divisa verde, non nera.

“Verso il 18 marzo una colonna di SS cominciò a transitare per Via Rasella due volte al dì. Passavano in un senso la mattina alle 6.00 e tornavano nell’altro verso le 15.00. cantavano una triste canzone ma marciavano così ordinatamente che sembrava di assistere ad una parata. Armati fino ai denti, chiudeva la colonna un carrettino a mano con due mitragliatrici ed un cannoncino. Era una ostentazione di forza che a noi preoccupò molto per le conseguenze che avrebbero potuto procurare dei gesti inconsulti. Ci sembrò una specie di provocazione e purtroppo così sembrò anche ad altri.

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Rastrellamenti

Il giorno 23 marzo alle ore 15.00 circa, eravamo raccolti ad ascoltare alcuni dischi. Avevamo deciso di non uscire essendo una ricorrenza fascista. Soltanto mia suocera uscì per alcuni acquisti. Ad un tratto due secche e tremende esplosioni ci fecero trasalire. Molti vetri caddero infranti; la casa tremò dalle fondamenta. Mi affacciai alla finestra e vidi con raccapriccio un groviglio di uomini immersi nel sangue. La solita colonna era passata e mentre la testa era già all’incrocio con Via delle Quattro Fontane, sulla coda erano state gettate due bombe che avevano ucciso 32 uomini.

Dopo un attimo di silenzio cominciò una fitta sparatoria. I tedeschi sparavano sulle finestre, nelle case, nei portoni. Pensammo di fuggire e cercammo una via di uscita ma le pallottole fischiavano da tutte le parti e non osammo affrontare la morte quasi certa. Pensammo anche che trovandoci noi al principio della via e divisi dal luogo dell’attentato da una via traversa, probabilmente avrebbero perquisito soltanto l’isolato dal quale erano partiti i colpi, ma che il nostro sarebbe stato immune. Intanto i tedeschi sfondavano con bombe a mano portoni, entravano e fucilavano sul posto gli uomini che trovavano.

Una donna fu uccisa da un colpo di mitraglia, penetrato attraverso una persiana; le finestre delle nostre stanze ricevettero diversi colpi tuttora visibili. Tutto ciò durò fino alle 18,30. A quell’ora la nostra abitazione fu invasa da molti tedeschi e da alcuni italiani che, con i fucili spianati, cominciarono a perquisirci. Fortunatamente non fu rinvenuta nessuna arma. Finita la visita fu ordinato agli uomini di uscire. Appena in strada fummo accolti con calci e colpi. Mio figlio Sergio (che ha ora 17 anni) ricevette sulla spalla un colpo con il calcio di un fucile da un ufficiale il quale aveva tolto l’arma ad un soldato perché percuoteva troppo delicatamente. Percorremmo Via Rasella con le mani alzate e sotto la minaccia dei fucili spianati. Passammo tra i morti ed ai brandelli di morti e sul sangue! Avevano gettato dell’acqua che aveva formato ai lati della strada come due rigagnoli rossi. Vicino ad una rete metallica osservammo dei frammentini di cranio con i capelli attaccati. Uno spettacolo da inorridire!

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Rastrellamenti

Il signor Remo Cantucci, il cognato Ledi, suo suocero, mio cognato Armando Di Cori, mio figlio ed io fummo caricati insieme ad altri su di un autocarro. In ginocchio e con le mani alzate! Alle nostre proteste di innocenza, un rinnegato italiano ci disse: “Tutti su! Buoni e cattivi! Paga il giusto per il peccatore!”(vedi lettera allo zio Salvatore Fornari scritta da Dino Terracina il 5 giugno 1944 in archivio privato famiglia Terracina)

Dopo una notte incubo passata nei sotterranei del ministero dell’Interno, saranno liberati tutti ad eccezione di dieci di loro, trattenuti per pulire i locali e che non faranno più ritorno alle loro case, ma alle cui famiglie arriveranno dopo giorni le famose cartoline che annunziavano la morte avvenuta il 24 marzo.

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col. Herbert Kappler

Il col Kappler è incaricato della rappresaglia, che viene stabilita, dopo varie mediazioni con la dirigenza militare tedesca, nel rapporto di 10 a 1, e che deve essere fatta al più presto entro le 24 ore ( evidentemente ciò che sta a cuore ai tedeschi è non ricercare gli autori dell’attacco ma terrorizzare la città, la notizia sarà diffusa il 25 marzo a ordine già eseguito ) e i fucilandi sono presi da Via Tasso e da Regina Coeli.oltre a quelli arrestati sul momento. Come scrive Alessandro Portelli ( in L’ordine è già stato eseguito, Donzelli editore, Roma, 2001) furono presi uomini, per quello che avevano fatto, i resistenti che erano in carcere, per quello che erano, 75 ebrei, per dove si trovavano, alcuni abitanti della zona di via Rasella. Nell’elenco 26 giovani non ancora maggiorenni, uno di appena 14 anni.

L’arbitro di tutto ciò il col. Herbert Kappler. Poiché muore un altro tedesco, questi di sua volontà, ne aggiunge altri 10 e nella fretta di fare le liste, ancora cinque, per errore. Nel corso del processo che subirà nel 1948, unico condannato ( il processo contro il tenente, poi capitano Priebke, che aveva collaborato attivamente, avviene solo successivamente nel 1996), dirà che ha obbligato i suoi dipendenti ad eseguire l’ordine, essendo convinto della sua legittimità. La sua sola preoccupazione è di trovare una camera mortuaria naturale che funga insieme da luogo di esecuzione e poi di interramento.. La scelta cade su una vecchia cava di pozzolana detta anche fosse ardeatine. .I condannati, in gran segreto, caricati su quattro camion chiusi, con i polsi legati dietro la schiena, vengono condotti sul luogo. La mattanza si svolge dalle 17 alle 19,30 secondo la testimonianza del salesiano padre Valentini.che sente gli spari, essendo la casa salesiana vicino alla cava e alle catacombe di San Callisto .Kappler, nel corso del processo dchiara.” Dissi che per la ristrettezza del tempo si sarebbe dovuto sparare un sol colpo al cervelletto di ogni vittima a distanza ravvicinata per rendere sicuro questo colpo, ma senza toccare la nuca con la bocca dell’arma” Così di cinque in cinque fino al computo finale 335.

Il medico Ascarelli, che fu successivamente nel luglio incaricato dell’esumazione delle salme, dichiarò :”Dato che le salme furono rinvenute una vicino all’altra e dati i molteplici strati in cui erano ammassati, è evidente che man mano che giungevano i morituri, dovevano essere fatti salire sui corpi dei compagni già uccisi “ Dunque queste le modalità. Gli ebrei furono trovati ammucchiati tutti da una parte, evidentemente anche nella morte si pensò di separarli dagli ariani. Poi Kappler dovette preoccuparsi di occultare i corpi. Al processo dirà che scartò la soluzione di bruciarli per non offendere lo spirito religioso del popolo romano, ( che riteneva evidentemente di non aver offeso con tutti quegli uccisi). Fa brillare ripetutamente delle mine la sera stessa e successivamente fino al 1° aprile per ostruire l’ingresso della galleria e impedirne l’accesso . Infatti la cosa si era risaputa e diverse persone si erano recate sul posto, richiamate anche dal terribile odore di morte, quando l’accesso non era ancora del tutto ostruito . I primi a farlo due padri salesiani, don MicheleValentini che invia il 31 marzo in Vaticano una famosa relazione, e don Luigi Pedussia, che anche lui invia un’altra relazione aggiungendo altri particolari dolorosi e raccapriccianti, che era riuscito ad intravedere sullo stato dei corpi.

Altri particolari si conosceranno a seguito dell’esumazione. Secondo Ascarelli per 39 degli uccisi non fu possibile ritrovare la testa, per altri le lesioni non sarebbero state profonde per cui non si può escludere lo strazio di una morte attesa accanto ad un compagno già morto. Paradossalmente quelli i cui corpi furono trovati in condizioni migliori soffrirono di più. Secondo il racconto di un disertore tedesco Pietro Raider, che da Via Tasso era stato anche lui portato lì, ma che successivamente era riuscito a fuggire, don Pietro Pappagallo, liberandosi con uno sforzo sovrumano le mani legate dietro la schiena avrebbe impartito a tutti una preghiera e la benedizione cristiana e tutti ebrei, atei, comunisti, massoni, si può pensare in quel momento l’abbiano accolta nel significato più universale.

Anche perché non tutti si erano preparati a vivere la propria morte. Per molti che non avevano capito, non c’era stato tempo di prepararsi, tutto era avvenuto in poche ore, e c’era poco da scrivere lettere, le mani le avevano legate. Quando gli Alleati liberarono Roma, si presentò il problema di dare una sepoltura a quei corpi, il luogo era già diventato meta di un pellegrinaggio e di un culto popolare che li aveva assimilati ai martiri cristiani delle tombe vicine di San Callisto.

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Fosse Ardeatine

In un primo momento si era pensato ad una sepoltura comune, lasciare i corpi là dove erano e sopra costruirci un monumento. Ma questo avrebbe impedito per sempre il riconoscimento di ognuno. Le famiglie si ribellano, non ci stanno, si forma un comitato di donne che convince il medico Ascarelli ad accettare l’impresa di esumare i corpi . I corpi sono lì da tre mesi, in stato avanzato di putrefazione, il medico si trova di fronte a scene di orrore, ma non indietreggiano accanto a lui le donne, cui è affidato il riconoscimento dei loro uomini, donne che ogni mattina si recano alle cave impavide insieme con i figli più piccoli, e lì sostano, parlano, si aiutano tra loro come formassero una nuova famiglia.

Nel 1949,nell’anniversario de 24 marzo, con una celerità straordinaria per questo genere di cose, è inaugurato il monumento funerario, assai diverso dai monumenti funebri a cui la tradizione patriottica e classicheggiante ci ha abituati. Non c’è un prato verde sereno con lapidi o croci di marmo, ci sono 335 bare di cemento non interrate, allineate, ciascuna con un numero e un nome, in un ambiente oscuro e sopra, come soffitto, una grande lastra pesante anche questa di cemento che incombe e comunica un senso di fortissima angoscia.. Chi ci va, anche se estraneo, non può non interrogarsi...


P.S.

Articolo sul sito dell’ANPI in occasione dell’anniversario del 2012 in cui si parla della lettera ritrovata da Anna Maria Casavola