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Nella speranza la nostra salvezza.

Meditando sull’enciclica ’Spe salvi’


sabato 8 dicembre 2007 di Giacomo de Antonellis

Argomenti: Religione


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Scrivo nel giorno di sant’Ambrogio e vorrei possedere il suo vigore e la sua frusta per sbattere fuori dal metaforico tempio di questo nostro Paese tutti i ciarlatani, i doppiogiochisti, i quacquaraquà che pullulano sui giornali, nei salotti televisivi, nell’intera società.

Sono fortemente arrabbiato, perché mi sento preso in giro, da personaggi tipo Cossiga che sproloquia contumelie contro il governo e poi lo salva senza dare spiegazioni logiche (forse è eccessivo pretendere la logica da certe persone) e anche da tanti esponenti politici che esaltano la democrazia e la libertà, ma rifiutano di salutare il Dalai Lama per paura della Cina.

Sorvoliamo pure su certi prelati che strumentalizzano le parole del Vangelo seguendo l’onda dei compromessi storici. Sono davvero disorientato, e nello stesso tempo condanno la mia rabbia che mi allontana dal perdono cristiano.

Festività di sant’Ambrogio, solenne per Milano e qui giorno di riposo: adatto a prendere in mano il testo giusto e dedicarsi ad una sana lettura, annotando ai margini qualche pensiero personale.

Per fortuna è fresca di stampa l’ultima Lettera enciclica di Benedetto XVI che, in tema di speranza, suggerisce numerose riflessioni sul passato e sul futuro. Spe salvi facti sumus.

L’abbandono della lingua latina a tutti i livelli, dalla scuola nostrana ai seminari clericali, non consente di afferrare in pieno la bellezza dell’espressione.

Siamo salvi nella speranza e attraverso la speranza, come puntualizza San Paolo ammonendo i Romani. Speranza è l’aspettazione sicura della gloria a venire in base alle opere che sono state compiute nel passato, secondo la terzina dantesca: “Speme, diss’io, è un attender certo / della gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto” (Par. XXIV, 67-69).

Uno sguardo al futuro per comprendere il passato, ma tutto questo non può avvenire senza tenere conto della costante presenza di Colui che si è fatto uomo, il Cristo salvatore.

Per la gente comune di oggi – refrattaria ai valori religiosi, superficiale nella vita scolastica, distratta dal consumismo, immersa nel relativismo – è davvero difficile comprendere la profondità di questa visione. Papa Ratzinger ci offre un’ancora per stabilizzare la barca della nostra esistenza.

Ci invita ad un momento di riflessione. “Il benessere del mondo non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano” (§ 24).

Non a caso le ideologie atee e totalitarie hanno fallito i loro obiettivi lasciando ovunque macerie, dopo il crollo dei loro edifici istituzionali; le scienze hanno sviluppato grandi progressi ma solo in termini materiali; l’ansia del potere ha seminato in ogni luogo distruzioni sofferenze e morte: a chi e a che cosa appigliarsi allora se non all’annuncio della redenzione in termini cristiani?

La fede non contrasta con la modernità, anzi ne è il presupposto primario quando ad essa si accompagna la speranza, una speranza “attiva” che si pone in un mondo reale, concepito per l’uomo e a servizio dell’uomo. Quasi la prefigurazione del Regno di Dio.

Attenzione, il pontefice tedesco non gioca con le parole ma, appoggiandosi a cento citazioni, disegna uno spaccato della società contemporanea.

Dove viviamo attualmente?

In un mondo pervaso di ateismo che, partendo dalla inculturazione illuministica e materialistica dei secoli scorsi, ha tentato di darsi un proprio moralismo: la protesta contro le ingiustizie sparse nella storia e dalla storia.

Un mondo che, fatto con simili sembianze, non può derivare da un Dio buono e perfetto.

Di qui la negazione. Ma “un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza” (§ 42) e proprio su questo punto interviene l’errore perché “l’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza” (§ 23).

Il raccordo è reciproco perché anche Dio ha bisogno degli uomini. Oltre si pone soltanto la morte. Occorre fare leva su quattro momenti: la preghiera, l’azione, la sofferenza, il giudizio di Dio che si esprime attraverso il messaggio di suo figlio Gesù.

Il Cristo è la speranza per tutti. Sull’esistenza umana Paolo dice che essa è costruita su un pilastro basilare, l’Uomo di Nazareth, appunto. “Se sopra questo fondamento si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile; la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno” (Corinzi, I – 3,12).

Viene da aggiungere, per chi crede, che se l’uomo costruisse il suo edificio basandosi sull’amore di Cristo nessun fuoco riuscirebbe a saggiare la resistenza del materiale e l’uomo potrebbe assidersi al banchetto divino.

Mille discorsi non potrebbero servire meglio dell’esempio proposto da Benedetto XVI con la piccola africana Giuseppina Bakhita canonizzata da papa Wojtyla.

Essa era nata nel Sudan, rapita e fatta schiava fino a pervenire nella casa di un italiano che chiamava in dialetto veneto paron il suo Dio.

La ragazza cominciava finalmente ad acquistare fiducia negli altri e – leggendo Paolo – si faceva redenta da questo paron che aveva abolito lo schiavismo rendendo tutti figli dell’unico Dio: diventava suora canossiana nel 1896 e si prodigava a diffondere ovunque il valore della “speranza” che l’aveva salvata.

Questa speranza, diceva, doveva raggiungere molti, raggiungere tutti. Cristo è la nostra speranza, la speranza di una umanità priva di sostegni etici. E grazie a questa speranza il sentimento di rabbia cede il passo al volgere del tempo

. Con padre Dante sillogizar conviene “Fede è sustanzia di cose sperate / ed argomento delle non parventi / e questa pare a me sua quiditate” (Par., XXIV, 64-66).

Ambrogio depone la frusta e scioglie inni al Signore.

 

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