Il 17 marzo l’Italia festeggerà la sua giovane Unità e, come spesso succede nel Bel Paese, una celebrazione la cui importanza e condivisione potrebbe esser sentita da tutti, sembra invece suscitare più divisioni che gioia. Il motivo principale, a detta di molti critici e della gente comune, è la presenza di un partito secessionista nel governo, ovvero la Lega Nord. Con l’influenza che esercitano nel Parlamento, Bossi &Co. ostacolano in ogni modo la valenza storica del centocinquantenario e infangano la nostra memoria condivisa.
Lungi dal voler giustificare le posizioni leghiste, credo sia opportuno interrogarci se gli scettici e i loro oppositori abbiano degli argomenti validi da sfoderare, ed in particolare chiederci se i leghisti siano poi così soli. Su quest’ultimo punto la risposta è negativa. Anche al Sud molti partiti secessionisti reclamano una attenzione sulla scena nazionale, si distinguono da quello di Bossi per varie debolezze strutturali e tattiche, ma indicano tuttavia un malessere diffuso - la sensazione che il meridione ha di venire saccheggiato e presto abbandonato dai politici romani è identica a quella dei “Nordisti”. Anche la Confindustria è rimasta alquanto fredda a proposito dei festeggiamenti: bene celebrare l’Unità ma niente ferie, tutti al lavoro.
La richiesta, che in un altro Paese europeo avrebbe fatto rabbrividire chiunque, cade nell’anno in cui il 25 aprile ed il 1 maggio sono giorni domenicali, e quindi mai come oggi alcune giornate di lavoro non verranno perse.
I sostenitori accaniti dell’Unità e della festa del 17, d’altro canto, ricordano l’importanza dell’essere uniti e italiani, credono fortemente nella storia del Risorgimento e sono rimasti entusiasti dell’esibizione di Benigni all’ultimo festival di San Remo, dove l’italianità è diventata una qualità da difendere e onorare sempre e comunque (ci si dimentica che italianissima è la mafia, il pizzo, il trasformismo, ed oggi anche l’ignoranza).
Tra i due schieramenti, vince la retorica: i leghisti da una parte, ma anche gli “unitari” dall’altra. Questi ultimi, che avrebbero ragioni da vendere, sovente cedono al luogo comune per difendersi dal razzismo padano, o per affermare il valore di un Paese unito nel quale il Sud trova un baluardo di civiltà.
Fra tali voci stonate emerge, secondo me, un grido lugubre e sinistro. Entrambe riscrivono gli eventi storici a seconda dei loro interessi, per sostenere le proprie ragioni, e così facendo tentano di nascondere una verità oggettiva, ovvero la dissoluzione dell’Italia e dell’Italianità del Novecento, ormai “corpo sul tavolo dell’obitorio”. Le politiche leghiste trovano consenso perchè hanno anche dei fondamenti, e così pure le altre; tutte invero sono rivolte ad una concezione novecentesca della Nazione, dei confini, della propria identità.
Per essere precisi e farla breve, io sono dell’avviso che l’Italia sia tornata ad essere ormai solo una espressione geografica, come diceva un noto politico in segno di disprezzo. Continuare a usare un vocabolario ed un parametro di misura del secolo scorso non aiuta a capire cosa stia succedendo nel mondo.
Proviamo a ragionare: oggi la cultura italiana è difesa in Paesi come il Vietnam o la Cina, il Canada o l’America, dove giovani entusiasti ottengono fondi e strutture per studiare la lingua e la letteratura. In Italia questo è ormai raro, non viene percepito alcun orgoglio se non durante le finali delle partite di calcio o in certi particolari eventi. L’italiano oggi è il prodotto di una cultura di massa che non lo rende differente da un tedesco o un americano. I ragazzi vestono tutti uguali, ascoltano una certa musica, non conoscono la loro lingua e non sanno scrivere.
Qualcuno si può ostinare e dire che il made in Italy è ancora il simbolo del nostro paese, e grazie ad esso eleganza e stile. Ebbene, oggi in Italia restano solo stabilimenti chiusi. L’Italia viene fatta in Turchia, Serbia, Brasile, Polonia; gli operai sono Cinesi, Portoghesi, Filippini, Canadesi. I prodotti alimentari arrivano dalla Libia, dal Portogallo, dalla Corea; di italiano è rimasto il marchio, ovvero il ricordo di un tempo che fu. E se ci impuntiamo e prendiamo ad esempio i nostri fiori all’occhiello, ovvero la Ferrari o la grande moda, cosa notiamo? Ingegneri inglesi e piloti spagnoli, stilisti francesi e modelle russe…
Quello che sta accadendo per l’Italia avviene anche per gli altri grandi paesi occidentali. La globalizzazione ha sparso le identità e le culture del Novecento al di fuori dei confini nazionali, ha prodotto un multiculturalismo tenace e diffuso ed il risultato è che oggi “Italia” e “Germania” sono tornate ad essere luoghi geografici e non più contenitori nazionali di una cultura e di una identità (lo sono mai state?). Insistere a parlare dei morti sarebbe ridicolo come essere orgogliosi di essere Prussiani o gridare nelle piazze “viva il GrandDucato di Toscana”.
L’italianità è seminata ovunque: da New York a Nuova Delhi, dall’Argentina alla Malesia. Questo cambiamento di paradigma dovrebbe spingerci a usare un nuovo vocabolario, ma la retorica descritta sopra indica che siamo ancora lontani dal capire cosa sia successo nel mondo negli ultimi 50 anni. Insistere sulla propria origine celtica o sul concetto di Patria vuol dire attenersi ancora ad una illusione storica fondata su concetti astratti e già messi in ridicolo dagli eventi del ventunesimo secolo. Non si tratta, sia chiaro, di negare una cultura o una origine; ciò che si sostiene è l’impossibilità di definirne i confini, anche politici, e di negare che nella VITA italiana ci sia molto di quella araba o germanica, tedesca o inglese. E così per gli altri: se gli indiani negassero che sono anche paradossalmente inglesi, allora mostrerebbero paura e debolezza.
Sono questi i sentimenti oggi più diffusi nel nostro paese, dovuti certamente alla
crisi economica ma anche alla incapacità di affrontare le sfide del futuro. Il meticciato universale, la cui realtà sarà attuata in meno di 40 anni, la diffusione di fabbriche, risorse umane, culture nei quattro angoli del globo porta con se terrore e spesso violenza, perchè i vertici alla guida dei paesi non vogliono guidare questi cambiamenti a vantaggio dei molti, poiché perderebbero un gran potere, ma si accontentano di soddisfare il privilegio dei pochi. (Rivelando che le uniche vere differenze restano quelle di classe).
Sentirsi italiani e festeggiare i centocinquantanni dell’Unità non può prescindere dal comprendere come l’Italia e l’italianità sono vive in un ragazzo australiano innamorato di Dante o in un giapponese che restaura estasiato il Colosseo. Considerare quindi nuovamente l’Italia una espressione geografica non vuol dire esprimere un giudizio sprezzante, ma prendere atto di un differente modo di vivere la propria cultura.
Gli ostinati potrebbero rifiutare di accettare la realtà e cercare invece nell’italiano medio-nativo-bianco l’esempio della nostra essenziale unicità, e pretendere di essere ascoltati. Ebbene, ascoltiamoli questi vati, e pensiamo alla maggioranza dei cosiddetti italiani oggi: della loro ingordigia, della loro mancanza di dignità morale, del sudiciume che avvolge la loro vita, cosa c’è da essere orgogliosi? Se sono loro i veri italiani, forse non abbiamo alcun motivo per celebrare alcunchè.