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Il culetto di Lucia


martedì 1 marzo 2011 di Michele Penza

Argomenti: Ricordi
Argomenti: Racconti, Romanzi


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A scanso di equivoci premetto che non è il caso di formalizzarsi sul titolo poiché l’elemento di eventuale scandalo è riferito a una bimba di due anni ed alla sua personale vicenda, una vicenda che appartiene marginalmente anche ai miei ricordi di gioventù.

Una espressione popolare romana, volgaruccia se vogliamo, suole associare la fortuna di una persona al suo posteriore, e curiosamente in questa storia tale relazione risulta presente dall’inizio fino al suo epilogo che, per fortuna, fu molto più felice di quanto si profilasse in principio. Devo aggiungere che solo in quel caso m’è successo di commuovermi su un tale argomento che fino allora consideravo possibile oggetto di battute scherzose o fonte di godimento estetico se riferito ad opere d’arte, di gioia e di piacere erotico se proprio ci vogliamo allargare, ma certo mai di commozione.

bimba La storia che un giorno Assunta mi raccontò col suo pesante accento di Cava dei Tirreni parte dal lontano 1945, quando la donna apprese che il marito, prigioniero in India, non sarebbe più tornato a casa perché ivi era morto, non si seppe mai di quale male. Trenta anni, praticamente analfabeta, povera in canna, quattro figlie sulla groppa la minore delle quali, una bella bimba di due anni, era l’ultimo ricordo che il marito le aveva lasciato nella licenza di cinque giorni concessagli prima di partire per l’Africa. Questa era Assunta Galeone. La pratica di pensione di guerra dormiva sonni profondi al Ministero del Tesoro in coda ad altre centomila, e con la famiglia d’origine i ponti li aveva rotti quando ne era uscita sbattendo la porta per seguire un uomo che ai suoi non piaceva: tale era il suo bilancio consuntivo, e non era quello del banco di Napoli.

Considerata la situazione Assunta si rese conto di trovarsi, come lei stessa si espresse molto efficacemente “co na mano innanzi e nn’ata arréto”. Si diede pertanto da fare a destra e sinistra per cercare di muoverle le mani, e in qualità di vedova di guerra riuscì a trovare occupazione nella locale manifattura di stato. Finalmente poté disporre di modesti mezzi di sussistenza ma rimaneva a quel punto il problema di tutta quella figliolanza. Non era facile trovare una sistemazione per tutte e quattro le bambine durante la sua assenza da casa. Scuola, asilo nido, suore, aiutavano ma non risolvevano totalmente: restavano sempre tempi scoperti, ore della giornata in cui qualcuna delle bimbe rimaneva incustodita, ciò che costituiva fonte di preoccupazione per la madre che non faceva mistero dei suoi crucci con comari e conoscenti.

Se ne parlava in giro e la cosa giunse alle orecchie di una coppia di anziani senza figli che timidamente attraverso intermediari formularono una proposta: avrebbero adottato loro la bimba minore. Erano due brave persone, benestanti, e Lucia sarebbe stata la figlia femmina che avevano tanto desiderato e che non avevano avuto. Considerato che Assunta stessa era una bella donna fiorente e robusta, dotata di una chioma rossa fiammante, e che la bimba già allora era un amore, i due aspiranti genitori pregustavano la gioia, del resto legittima, d’avere in casa una bella figliola che li avrebbe resi felici. Non era offerta da disprezzare, certamente le avrebbero potuto assicurare una condizione e un avvenire migliori rispetto al suo stato presente.La reazione di Assunta fu aspra. Mai si sarebbe privata di una figlia, piuttosto si sarebbe prostituita pur di tenersele tutte intorno, questo pensava e questo disse con durezza a chi le portava l’ambasciata. Lo diceva e lo credeva fermamente, così mi garantì quando mi narrò i fatti. I due però, sapendo le condizioni della famiglia, non si scoraggiarono e seguitarono a insistere con discrezione evitando di esasperarla, cercando intermediari autorevoli per convincerla che l’adozione della bambina sarebbe stata la soluzione ottimale non solo per la piccola ma per lei stessa e per le altre figlie, sgravate dalla responsabilità di sorvegliare la sorellina, essendo bimbe ancora loro stesse. tabacchine1

Assunta si tenne irremovibile per un bel po’, finché accadde qualcosa che l’indusse a riflettere obiettivamente su quale fosse la scelta migliore. A suo onore va detto, secondo le sue stesse parole, che trovò la forza di mettersi “o core sott’ i scarpe” e asciugati gli occhi si risolse ad agire nell’esclusivo interesse della figlia. L’occasione che mutò la sua prima ed emotiva determinazione in riflessione fredda e lucida fu data da un incidente. Un giorno venne la polizia a prenderla sul lavoro e giunta a casa ci trovò un putiferio. Piena di gente, le figlie che piangevano disperate e la piccola che urlava come una dannata perché giocando era caduta a sedere sulla brace del focolare e il suo bel culetto roseo, che strappava i baci della mamma quando la vestiva, era ridotto a una sola piaga rossastra.

Quando, e ci vollero mesi di sofferenze, Assunta riuscì a trovare il tempo e la quiete dell’animo per fare qualche riflessione l’accaduto le parve un segno del destino: in casa sua la bimba non aveva futuro, chi sa cosa poteva accaderle ancora! Si vede che quella doveva essere la volontà di Dio. Fece conoscere la sua nuova decisione ai coniugi, che furono ben felici di concludere l’adozione ponendo ovviamente la condizione che la madre scomparisse dalla vita della figlia e rinunciasse a qualsiasi suo diritto per l’avvenire.

Il giorno che Assunta, che nel frattempo era approdata anni dopo a Roma con le sue tre figlie e un nuovo compagno, mi affrontò secondo il suo costume per intimarmi perentoriamente di scrivere al prete del suo paese, tentai dapprima di cavarmela con una battutina e le dissi che l’avrei fatto volentieri ma, vedi caso, m’ero già sposato in chiesa l’anno precedente. Non si poteva fare una cosa alla buona, fra di noi, senza disturbare il prete? Tra buoni amici tante formalità?

Assunta non si lasciò smontare per così poco. Ci voleva ben altro per confonderla. Sorrise e mi disse: “Avite raggione, v’aggio a dicere...” Vi devo spiegare. E mi raccontò tutta la storia, cominciando da principio. Perché proprio a me?

Perché a quel tempo ero considerato sul lavoro una specie di avvocato dei poveri. Sapendomi studente fuori corso di giurisprudenza (e tale rimasi a vita) gli operai che frequentavo vollero scambiarmi per un avvocato che non costava nulla, e mi si presentavano continuamente con le richieste più strane. Meno male che il più delle volte si trattava di questioni per cui non occorreva la laurea, e che potevano risolversi con un po’ di buon senso e qualche lettera da scrivere o da interpretare.

Che voleva da me Assunta? In breve appresi che i vari approcci che aveva tentato per avvicinare la figlia erano miseramente falliti. Si era di fatto scontrata non solo con la resistenza, scontata e prevista, dei genitori adottivi ma anche, e questo la sconcertava, con l’atteggiamento di ripulsa della figlia stessa che rifiutava ostinatamente di concederle un colloquio, ponendosi in atteggiamento di chiusura totale nei suoi confronti. Il compito affidatomi era quello di sollecitare la mediazione del sacerdote per ottenerle un incontro con la figlia, cosa che feci volentieri dando così inizio a una fitta corrispondenza col prete che si rivelò, per fortuna, uomo di buon senso.

1000000000000118000000D14777C958Inizialmente mi oppose le obiezioni dettate dalla ragione comune: erano trascorsi tanti anni, le cose s’erano stabilizzate in un certo modo, sentimenti d’affetto erano nati e cresciuti, vincoli familiari nuovi s’erano consolidati, valeva proprio la pena di mettere a repentaglio tutto questo e di turbare la coscienza della ragazza e la pace della sua nuova famiglia? Non potevo ignorare che mi opponeva ragioni più che valide, però m’ero così immedesimato nel ruolo di avvocato di parte che mi sforzai di mettere in giusta luce le considerazioni della mia patrocinata. In fondo la ragazza era ormai maggiorenne, una donna, libera nelle scelte e negli affetti. Nessuno avrebbe tolto nulla a nessuno se, pur continuando a vivere coi suoi genitori adottivi, avesse conosciuto la sua vera madre e le sue tre sorelle. A un ipotetico sconcerto iniziale poteva seguire un arricchimento nei sentimenti, una crescita sul piano degli affetti e della sua stessa felicità.

Del resto l’occasione era data dal fatto che una delle sorelle, la maggiore e l`unica a conservare ancora il ricordo di Lucia piccolina, era in procinto di sposarsi e nutriva il desiderio di recarsi all`altare circondata da tutti i membri della sua famiglia. Poteva il degno sacerdote biasimarla per questo? E poi, reverendo padre, si trattava in definitiva di affermare la verità. Per un buon cattolico la verità magari non sarà rivoluzionaria come per i marxisti, ma sarà pur sempre un valore, o no?

Il buon prete dopo un batti e ribatti più o meno lungo alla fine fu persuaso e si adoperò personalmente a convincere la ragazza che ad ascoltare quella signora che tanto desiderava parlarle non aveva nulla da perdere. L’incontro finalmente ebbe luogo e si svolse nella canonica, senza testimoni. Ogni cosa mi fu riferita da Assunta stessa. Le prime battute del colloquio furono stentate e gelide, poi il tono salì presto di livello fino a divenire scontro aperto: presso a poco le cose mi fu detto che andarono così:

- Beh, eccomi qua. Che volete da me? - Conoscerti. Parlarti. Non ti vedo da tanti anni. Come stai? Perché sei così pallida? - Saranno fatti miei! Io non so chi voi siate e che volete da me. - Io sono la tua mamma, e tu hai tre sorelle che desiderano conoscerti anche loro. - Queste sono fantasie. Non ho sorelle e mia madre non siete voi. - Non te lo avranno detto, ma sono stata io che ti ho messo al mondo e ti ho dato con queste mani alla donna che ti ha cresciuto. - Non vi vergognate a venirmi a dire una cosa simile? Se pure fosse vero vorrebbe dire che avete regalato una figlia come fosse un cucciolo di cane. E me lo venite pure a dire! Ma andate al diavolo, chi sa chi siete, voi!

A questo punto del racconto tremai per la ragazza. Assunta a quell’epoca era una donna più alta di me, sul quintale di peso, anche qualcosa di più, e pure fumantina di temperamento. Non era tipo da sopportare un affronto del genere tanto meno da una figlia. Se le avesse mollato quel ceffone che le stava scivolando dalle mani le avrebbe fatto male e, peggio ancora, avrebbe posto fine a ogni speranza di dialogo con lei. Fu in quel frangente che lei si guadagnò la sua medaglia d`oro alla saggezza. - C`è mancato poco, vero Assunta? - C’è mancato niente! Però ‘na mamma a tène a pacienza! - Brava, Assunta! - Sì, aggio pensate: se è figlia a mme, ‘na santarella non pot’esse! Pure essa a tène a lengua!

E qui mi sembrò di vederle socchiudere gli occhi in un ghignetto da leonessa. Comunque vista la piega che le cose pigliavano Assunta decise di cambiar tattica. Smise il tono sommesso e umile tenuto fino allora e pur tenendo salde le briglie al suo temperamento sanguigno: - Levati le mutande! - ordinò alla figlia, col tono della madre che si è ‘scocciata’ e non ammette più discussioni.

La ragazza era sconcertata: - Ma voi siete pazza per davvero. Ricordatevi almeno che siamo in chiesa! - Siamo in sacrestia, non in chiesa. Stai tranquilla che non saresti la prima, se ricordo bene com’era fatto il prete dei tempi miei. Ma di che ti vergogni? Sono una donna anch’io e più vecchia di te. - Ripeto che siete pazza completamente. Ma poi, che vorreste vedere? Fatemi capire almeno! - Forse vedrei che non sei bruna di capelli come t’ha fatto il parrucchiere, ma rossa, come t’ha fatto tua madre. E forse vedrei pure perché sei l’unica ragazza di Cava che d’agosto non va alla spiaggia a pigliare il sole come tutti gli altri. La ragione è che non vuoi metterti in costume perché lì dietro sei tutta una cicatrice, specie a destra dove il fuoco ti ha toccato anche la coscia.

assunta

La ragazza rimase allibita. - Che ne sapete voi? - mormorò - Non mi sono mai mostrata! - Tu forse le avrai dimenticate le sofferenze di quei giorni, ma io le tue urla di dolore le ho portate qui, nella testa, per tutti questi anni. E’ la paura che uno strazio simile si potesse ripetere che m’ha indotto a metterti al sicuro. Ho fatto male? Ho fatto bene? Non lo so, e nemmeno tu lo puoi dire. Io ho buttato il sangue tutta la vita mia, spero che a te sia andata meglio, perché ciò che ho fatto l’ho fatto a questo scopo. Comunque sia, le cose andarono in quel modo. E’ vero, te la dovevo una spiegazione e adesso te l’ho data!

Seguì un lungo silenzio, poi un lieve sussurro di Lucia: - E, dite che ho tre sorelle? Assunta addolcì il tono di voce: - Andiamo, sono in chiesa che t’aspettano. Vieni con me.

La ragazza sollevò lo sguardo che aveva prima abbassato, soggiogata dal tono della donna, e vide che la madre le sorrideva. Fece un passo incontro a lei, l’altro lo fece la madre e le due donne finalmente s’abbracciarono. Ciò che dovevano dirsi se lo erano detto. Dubbi e rancori, se ancora ce n’erano, esposti all’aria pura stavano asciugando i loro veleni.

100000000000012C000000B445DAC0DAA suo tempo Assunta mi relazionò minutamente e concluse soddisfatta che Lucia aveva voluto fare da testimone alle nozze della sorella, e le aveva anche fatto un bellissimo regalo. La ragazza aveva presto legato con le sorelle, sia per l’età che le avvicinava, sia perché nell’adolescenza aveva sofferto la mancanza di affetti fraterni. Nei riguardi della madre sembrava ancora frenata da un sentimento non tanto di diffidenza quanto di soggezione per quella donna imponente e autoritaria.

Fui stupito però nel constatare in seguito come Assunta, che poteva apparire per certi versi una persona squadrata con l’accetta, percepisse le difficoltà della figlia e si sforzasse di venirle incontro offrendole tutta la tenerezza di cui era capace.

Volle ringraziarmi calorosamente e lo fece con un abbraccio che mi tenne in apnea, compresso tra le sue zinnone straripanti per un buon mezzo minuto, lasciandomi olezzante di sudore e di polvere di tabacco: erano in genere in questa moneta gli onorari che riscuotevo dalle mie operaie in casi simili. (Dai maschi se andava bene rimediavo il caffè.) A quel tempo dicevo che ne avrei fatto a meno volentieri ma verità è che mentivo spudoratamente. Assunta era raggiante di felicità e al calore del suo cuore si scaldava un po’ anche il mio: ero felice per aver dato il mio piccolo contributo a quella gioia.

Si vive anche di queste cose.

- Avete pianto alla cerimonia, donna Assunta? - mi venne fatto di punzecchiarla. - No! E perché aviss’a chiagnere? - mi rispose. - Ho pianto tutto insieme le mie lacrime al tempo maledetto della bruciatura. Dopo d’allora non ho pianto più per nessuna cosa. E così Assunta Galeone mi espose in due parole la sua filosofia di vita, semplice e lineare quanto lei, bella persona cui ancora oggi penso con simpatia e che mi ritorna al ricordo così come allora m’appariva, serena e impavida nella sua vampata di capelli rossi e, per tornare coerentemente al tema di questa storia, con un deretano imponente che le conferiva nell’incedere un aspetto maestoso e ondulante.

Simili a lei dovevano apparire i galeoni di Amalfi con le rosse vele spiegate al vento!

 

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