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ATTUALITA’ DEL 25 APRILE

Riflessioni sulla nostra Costituzione e sulla recente storia del nostro paese
giovedì 28 maggio 2009 di Claudio Natoli

Argomenti: Celebrazioni/Anniversari
Argomenti: Opinioni, riflessioni
Argomenti: Storia


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Ho il piacere di ospitare questo articolo del Prof. Claudio Natoli, ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università di Cagliari, che contiene interessantissime riflessioni sulla nostra Costituzione e sulla recente storia del nostro paese.

L’autore ci segnala che l’articolo è uscito sul Manifesto Sardo online del 16 aprile 2009, ma che apprezza una diffusione tramite la nostra rivista. Visto l’interesse della materia, ci permettiamo questa eccezione alla nostra regola sui testi originali.

L. De Vita (Editore di Scena Illustrata)

La giornata del 25 aprile è stata celebrata con maggiore o minore enfasi, con maggiore o minore partecipazione nelle diverse fasi della storia dell’Italia repubblicana, ma oggi, nel suo sessantesimo anniversario, sembra assumere per tutti coloro che ancora si riconoscono nella nostra Costituzione un significato anche più attuale di ieri.

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Da molte parti abbiamo sentito affermare negli ultimi anni che, di fronte alle radicali trasformazioni del mondo contemporaneo, i valori e i principi fondanti della Resistenza e della Costituzione sarebbero divenuti obsoleti e che solo il richiamarli alla memoria avrebbe come risultato di alimentare un clima di odio e di divisioni e di ostacolare una auspicata ’pacificazione nazionale’, cosicché ci si è spinti nella fase più recente fino a richiedere l’abolizione della festa della Liberazione e la sua sostituzione con una pretesa “giornata della concordia”.

Di che genere sia questa pacificazione possiamo apprenderlo dal fatto che in sedi anche molto autorevoli del ceto politico e di governo e nel sistema di comunicazione mediatica e audiovisiva non si perda occasione non solo per denigrare l’antifascismo e la Resistenza, ma anche per fornire nel contempo una visione grossolanamente edulcorata del passato fascista e di riabilitarne persino il suo lato più fosco, e cioè il collaborazionismo della cosiddetta repubblica di Salò. E’ attualmente in discussione al Parlamento un progetto di legge governativo che vorrebbe equiparare i fascisti combattenti di Salò ai partigiani e ai militari dello Stato italiano, ivi compresi i seicentomila militari catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e che scontarono il campo di concentramento proprio perché si rifiutarono di combattere in quei corpi armati di Salò che erano preposti alla guerra antipartigiana e agivano al servizio dell’occupante tedesco. Non è qui possibile entrare nel merito di questa campagna mediatica, che è stata rivolta all’opinione pubblica più vasta, al fine di formare una nuovo senso comune “anti-antifascista”: non si può tuttavia sottacere che essa si è nutrita di messaggi, di slogan e di contenuti direttamente tratti dall’armamentario polemico dell’Uomo Qualunque, del neofascismo, delle correnti del cattolicesimo integralista e autoritario e dell’anticomunismo dei primi anni Cinquanta, ma anche che a suo sostegno sono scese in campo per la prima volta forze molto potenti, dalle televisioni berlusconiane al servizio pubblico della RAI, e, non ultimo, che essa è stata largamente sostenuta anche da quotidiani che si professano liberali, come il “Corriere della sera”: e basterà qui accennare alla polemica sulla cosiddetta “morte della patria”, che ha avuto nell’organo di stampa più autorevole della borghesia italiana e nei suoi editorialisti ed opinionisti il principale soggetto promotore.

E’ appena il caso di aggiungere come tutto ciò suoni offesa non solo alla verità storica, ma al più elementare senso di giustizia e alla stessa identità democratica e civile del nostro paese e come il caso italiano costituisca oggi una assoluta anomalia nell’ambito dell’Europa occidentale. In questa area geografica e politica, infatti, gli uomini di governo dei più diversi orientamenti, penso al presidente Chirac, notoriamente non appartenente all’area della sinistra, proprio nella fase più recente hanno teso a rimarcare il valore della Resistenza come momento fondante dell’identità democratica del proprio paese e più in generale dell’Europa uscita dalla tragedia della seconda guerra mondiale e dalla disfatta del nazifascismo e hanno sempre rifiutato qualsiasi alleanza politica ed elettorale con la destra neofascista rappresentata dal Fronte nazionale di Le Pen.

D’altra parte, anche in Spagna, dopo una prolungata fase di rimozione nella sfera pubblica della tragedia della guerra civile e del passato franchista, a cui peraltro si è meritoriamente sottratta la comunità degli storici, si è assistito negli ultimi anni a una piena assunzione di responsabilità da parte del governo e delle pubbliche istituzioni, che ha portato alla valorizzazione della resistenza repubblicana e alla decisione di eliminare i simboli celebrativi del regime di Franco. Nella Germania federale l’Historikerstreit ha evidenziato la vigile presenza della comunità degli storici nell’impedire ogni tentativo di azzeramento della coscienza critica del passato nazista come patrimonio dell’identità democratica del paese, sia prima che dopo la caduta del Muro di Berlino.

Non è inutile allora tornare a sottolineare come l’antifascismo e la Resistenza costituiscano una delle fasi della storia dell’Italia post-unitaria di cui il nostro paese possa andare incondizionatamente fiero e come il modello di democrazia e di convivenza civile codificato dalla nostra Costituzione meriti oggi non solo di essere difeso nei suoi presupposti fondamentali, ma debba anche in una notevole misura essere riconquistato.

Ed è altrettanto importante ricordare come la nostra Costituzione non sia nata dal nulla. Essa aveva alle spalle un processo estremamente complesso di elaborazione teorica e politica che si era svolto anzitutto nel vivo delle lotte antifasciste in Italia e in Europa nel periodo tra le due guerre, e in particolare nella seconda metà degli anni Trenta: è a questa fase che risale l’incontro tra i comunisti, i socialisti e Giustizia e Libertà sul terreno del carattere democratico della lotta antifascista, ma al tempo stesso sul terreno della ridefinizione dei soggetti e dei contenuti di una democrazia profondamente rinnovata, capace di recidere le radici politiche e sociali del fascismo e di superare nel contempo l’estraneità delle classi popolari al vecchio Stato liberale.

In seguito, nel corso della Resistenza, la nuova cultura politica dei partiti della sinistra si incontrò con le correnti più avanzate del mondo cattolico, rimaste estranee all’antifascismo storico e con gli eredi del liberalismo prefascista, dando vita a un movimento unitario che conferì nuovamente dignità al popolo italiano come soggetto autonomo della propria liberazione e della conquista della democrazia. Le aspirazioni ad un mondo più libero e più giusto dei movimenti della Resistenza si contrapposero allora nell’intera Europa alla realtà di oppressione e di disumanizzazione impersonata dall’occupazione nazifascista e simboleggiata dall’orrore dei campi di concentramento e di sterminio. La nostra Costituzione costituì precisamente un tentativo di recepire queste istanze, prefigurando un nuovo modello di democrazia che rappresentava una rottura non solo con il regime fascista, ma anche, per molti aspetti, con lo Stato liberale prefascista.

Anzitutto va ricordata l’estensione, per la prima volta nella storia d’Italia, del suffragio elettorale alle donne, che ne erano state precedentemente escluse. E poi la nascita di una repubblica parlamentare non più segnata dai tratti autoritari del vecchio Stato monarchico costituzionale, bensì fondata sulla partecipazione attiva dei partiti di massa e della società civile e sul principio della separazione e del bilanciamento dei poteri tra governo a parlamento, sull’indipendenza della magistratura e su organi autonomi di garanzia, come il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. A ciò dobbiamo aggiungere un secondo aspetto fondamentale, e cioè la nuova dimensione dei diritti di cittadinanza: al sostanziale allargamento delle libertà politiche e civili (con l’inclusione del diritto di associazione e del diritto di sciopero) si accompagna per la prima volta il riconoscimento dei diritti sociali come diritti inscindibili dai diritti politici: il diritto all’istruzione libera e gratuita, il diritto al lavoro, il diritto alla sanità, il diritto alle pensioni, il diritto ad una salario equo e conforme alla dignità della persona, sono sanciti costituzionalmente. Di più: i poteri pubblici sono tenuti ad operare attivamente per il superamento delle disuguaglianze sociali, che costituiscono un ostacolo all’espletamento dei diritti di libertà. L’esercizio della proprietà privata è garantito anch’esso costituzionalmente, purché non entri in contrasto con l’interesse generale. Infine, la Costituzione ripudia la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, rivendica un nuovo ordinamento internazionale fondato sulla pace, l’uguaglianza e la cooperazione tra i popoli.

Dopo il 1945 questi principi facevano parte di un sentire largamente condiviso ben al di là dei confini dell’Italia: per convincersene, basta gettare uno sguardo su altre Costituzioni europee di quegli anni (il primo riferimento è alla Francia), oppure rileggere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite alla fine del 1948. Certo, l’attuazione di questi principi ha costituito un capitolo lungo e travagliato della storia dell’Italia repubblicana, si è scontrata, soprattutto negli anni della guerra fredda, con forti resistenze conservatrici nello Stato e nella società, oltre che con i limiti della cultura di tutte le forze politiche, ed è approdata a risultati tutt’altro che compiuti: e tuttavia si può affermare con sicurezza che il progresso democratico e civile che il nostro paese ha conosciuto nel trentennio successivo alla Liberazione ha trovato nella Costituzione repubblicana il suo più solido fondamento.

Dobbiamo rassegnarci ad accettare che tutto questo venga accantonato come un residuo di un passato definitivamente tramontato o non dobbiamo invece fare di questo patrimonio un punto di riferimento per una nuova Europa della democrazia e dei diritti e non solo della moneta, che tra mille difficoltà e resistenze si va costruendo?

Non vi è dubbio che questi principi, che ci fanno anche sentire compartecipi delle migliori tradizioni, delle radici storiche e culturali del modello politico e sociale europeo anche nella sua specificità e nella sua distinzione rispetto al modello americano (si pensi alla conquista di civiltà segnata nel dopoguerra dall’avvento del Welfare State) costituiscano oggi una sfida per tutti coloro che vorrebbero rimodellare le nostre società all’insegna della teologia di un libero mercato del tutto svincolato dalla regole della democrazia. E’ questa l’utopia distruttiva di quello che comunemente si definisce il ’pensiero unico’ neoliberale, che ha avuto a partire dagli anni Ottanta, insieme con la rileggitimazione della guerra come strumento di soluzione dei contrasti tra gli Stati, una grande influenza internazionale sul piano politico, culturale e soprattutto mediatico e che costituisce l’ideologia legittimante degli effetti devastanti dell’attuale globalizzazione dominata dai principi del cosiddetto Washington Consensus. E’ doveroso rilevare che in Italia i suoi interpreti, particolarmente improvvisati e sprovveduti, nella loro pretesa di sostituire i principi della democrazia partecipativa e della solidarietà sociale codificati nella Costituzione con il primato del più ricco e del più forte rischiano di portare al degrado dell’intera sfera pubblica, alla disgregazione e all’imbarbarimento dell’intera società, con conseguenze irreparabili sullo sviluppo economico, sociale e civile del paese.

Non vorrei dare l’impressione che di fronte alle radicali trasformazioni del mondo contemporaneo non ci sia nella Costituzione nulla da modificare, a cominciare dal bicameralismo perfetto che rende in Italia lungo e ferraginoso il processo legislativo. Tuttavia, non è questa la posta in gioco su cui oggi siamo chiamati a confrontarci. Ciò su cui invece è importante in questa sede riflettere è il nesso che unisce da una parte, la politica che è stata portata avanti dall’attuale coalizione di governo volta a promuovere la disuguaglianza e la “precarizzazione” del lavoro, togliendo ai giovani la possibilità stessa di costruirsi un futuro, e volta nel contempo a erodere sistematicamente le istituzioni pubbliche preposte alla solidarietà sociale e alla universalità dei diritti; dall’altra, i processi di trasformazione istituzionale e costituzionale che proprio nella fase più recente si è cercato di varare a colpi di maggioranza. Così all’attacco all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e all’indipendenza della magistratura dal potere politico perseguito attraverso le leggi ad personam e una controriforma dell’ordinamento giudiziario che dovrebbe essere varata tramite la legislazione ordinaria, ha corrisposto un progetto di revisione costituzionale che stravolge le prerogative del Parlamento e il sistema stesso della separazione dei poteri, indebolisce il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica e l’autonomia della Corte costituzionale, accentra i poteri nella figura di un premier dai tratti marcatamente plebiscitari e al quale la persistente assenza di qualsiasi legge sul conflitto di interessi potrebbe conferire anche abnormi risorse mediatiche. E questo anche a prescindere dai pericoli che possono minacciare la stessa unità nazionale a seguito di caotici processi di devoluzione di poteri alle singole regioni e dell’esasperazione di tutte le disuguaglianze, gli egoismi e i corporativismi all’interno e fra le diverse aree geografiche.

Sarebbe interessante e anche onesto interrogarsi sulle insufficienze manifestate a partire almeno dagli anni Novanta dalla cultura politica e istituzionale delle stesse attuali forze di opposizione che fanno riferimento al centro-sinistra: ed in particolare chiedersi se troppo a lungo non si sia protratta la tendenza a considerare l’eredità dell’antifascismo e della Resistenza come un peso da cui liberarsi per favorire una non meglio definita transizione verso il nuovo e verso un auspicato paese ’normale’ privo di storia e di memoria, sulla prolungata mancanza di una vera battaglia delle idee per la difesa delle radici della nostra storia e del patrimonio di valori della nostra Costituzione, e se tutto questo non abbia finito per favorire ai più diversi livelli i progetti di una destra ’eversiva’ nella sua ideologia non meno che nei suoi comportamenti.

Oggi il clima politico del nostro paese sembra essere profondamente cambiato e induce a pensare che il progetto eversivo messo in atto del governo di centro-destra e dalle forze politiche che lo sostengono difficilmente potrà andare in porto. Il pericolo maggiore sarebbe tuttavia comportarsi come se niente fosse accaduto, oppure pensare di riprodurre in altre forme la cultura improvvisata e le logiche della fallita Bicamerale del 1997. Per questo a me sembra che il compito più urgente, per tornare finalmente ad un uso più appropriato della lingua, sia oggi non solo quello di affossare l’attuale progetto di controriforma costituzionale, con un’opera capillare di chiarificazione che finalmente coinvolga l’intera cittadinanza, ma di costruire con la massima urgenza la garanzie procedurali e istituzionali che mettano anche per il futuro la nostra Costituzione e i fondamenti stessi della nostra democrazia al riparo dei rischi gravissimi che abbiamo sperimentato in questi ultimi anni.

Claudio Natoli (Cagliari, 18 aprile 2005)

 

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