Merito del libro di Raffaello Canteri e Francesco Specchia Terrorismo. L’altra storia (Aliberti editore, Reggio Emilia, 2007) è di aver affrontato il tema terrorismo, dall’esperienza delle Brigate rosse sino ai più recenti colpi, liberando i fatti da pregiudiziali e interpretazioni ideologizzante.
Infatti scorrono davanti al lettore, come in un film lungo oltre un trentennio, la serie di delitti che hanno sanguinosamente caratterizzato la recente storia italiana. All’inizio vi fu la tesi, diffusa pure in ambienti colti e considerati (a torto) democratici, secondo la quale l’odio alimentato e nutrito contro i cosiddetti fascisti (erano semplicemente giovani d’estrema destra) sembrava giustificare le azioni armate – individuali e collettive – condotte a Milano e a Roma per “cancellare” dalla faccia della terra (per respingerli nelle “fogne”, come si affermava con eleganza da intellettuali) coloro sui quali veniva espresso un giudizio perentorio di condanna: in tal caso l’ “esecuzione” non era che la logica conclusione di un “processo” interamente assoggettato alla follia assassina. Quella logica allargò poi i presunti “rei” sia tra i componenti delle forze dell’ordine sia nei confronti di magistrati, politici, docenti universitari. Dal caso Mattei ai vari gruppi di guerriglieri i segni della lotta armata marcano una stagione triste con il marchio della morte impressa su tante vittime con tutte le conseguenze per le famiglie altrettanto innocenti dei loro cari, “eliminati”.
Ed una ad una le pagine svelano tutti i particolari di aggressioni, stragi, descrivendo come Prima Linea ed Autonomia Veneta o altre organizzazioni del genere abbiano continuato ad agire mentre mal proseguivano le udienze riguardanti i brigatisti catturati, tra rifiuto di partecipazione dei giudici popolari (e sarà una esponente politica radicale a superare quel blocco provocato da una non infondata paura e diffuso timore). Tornano nomi e cognomi che negli anni ’70 e ’80 hanno riempito le cronache nere. Sul caso Moro vi sono stati recentemente ripensamenti, come nel caso di Piero Fassino, il quale non ha esitato a dichiarare “ex post”: “forse bisognava trattare”, uno dei tanti argomenti sui quali il politico torinese ha cambiato opinione.
Gli autori ricordano come quel consenso generalizzato a favore di tante “imprese” criminali sia andato poi progressivamente disperdendosi. Nel solo anno 1979 risultano compiuti 659 attentati con 269 gruppi terroristici attivi. Il caso di Guido Rossa dimostrò a Genova come il cambiamento netto di atteggiamento dell’ambiente sindacale fosse in grado di mutare i termini dello scontro rispetto alle opinioni correnti. Il rapporto diretto indicato dagli autori tra situazione interna nelle fabbriche e marcia dei 40 mila all’inizio degli anni ’80, richiede una analisi più accurata, giacché non si possono dimenticare i “regimi” di lavoro imposti alla Fiat”: sarebbe semplicistico accettare le posizioni esposte nel libro.
Quando e come si preparò il terreno per la “controffensiva dello Stato?” Anche su questo punto l’analisi richiede approfondimenti. Le uccisioni di Bachelet e Minervini indicavano il “tipo” di vittime “predestinate” come sarà poi per i giuslavoristi: si trattava – dal punto di vista degli eversori – di colpire non tanto e non solo quelli che per loro erano i “nemici” più evidenti, quanto di “cancellare” tutti quegli elementi (specie politici d’area cattolica di sinistra o socialisti) che apparivano sostenere posizioni “ragionevoli” circa le grandi scelte cui il paese andava incontro, proprio per ridurre al silenzio quanti apparivano elementi mediani e favorevoli a “comprendere” meglio il movimento di sollevazione emerso obiettivamente nel paese. In quel clima viene ucciso anche uno dei più intelligenti scrutatori dell’animo dei gruppi dai quali venivano gli “assassini”, cioè Walter Tobagi, assassini che non a caso erano a lui fisicamente molto vicini, come erano nel mirino dei terroristi sia magistrati che ufficiali dei carabinieri. La dissoluzione del partito armato si produce quando il P.C.C. ha raggiunto la sua punta più alta. Resta discutibile il favore accordato dei “dissociati” attraverso le leggi premiali. C’è da chiedersi – e tanta pubblicistica sull’argomento come le inchieste parlamentare non hanno fornito chiarimenti in proposito – come mai vi sia stata tanta incertezza nelle “forze dell’ordine”, a livello direttivo ed esecutivo: vi sono state responsabilità tecniche e responsabilità politiche sulle quali non si è fatta mai luce.