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I soprintendenti alle Belle Arti di Napoli negli ultimi 70 anni

La loro capacità hanno permesso la diffusione della conoscenza dell’arte meridionale
sabato 1 febbraio 2014 di Achille della Ragione

Argomenti: Arte, artisti
Argomenti: Mostre, musei, arch.


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Bruno Molajoli

A differenza di tante altre cariche apicali dai prefetti ai questori, dai ministri agli imprenditori, la Sovrintendenza alle belle arti di Napoli negli ultimi 70 anni ha costituito un’isola felice abitata da insoliti titani. Prima Bruno Molajoli gestì i difficili anni del dopo guerra salvando il patrimonio artistico dalla furia dei bombardamenti, trasferendolo al sicuro e, cessate le ostilità, riaprendo a tempo di record tutte le gallerie, dalla Nazionale ai Gerolamini, dalla Floridiana a San Martino; quando le truppe di occupazione alleate ... strappavano senza ritegno le sete dei saloni di Palazzo Reale e regalavano antiche poltrone alle sciagurate signorine dei vicoli off limit dei quartieri spagnoli, in cambio del soddisfacimento delle loro più turpi pulsioni sessuali. Poi venne il ciclone Raffaello Causa, l’ideatore di mostre che hanno sbalordito il mondo, da Civiltà del Settecento a La pittura da Caravaggio a Luca Giordano, tappe incalzanti di un trionfo clamoroso dell’arte napoletana. E scomparso prematuramente Causa, il testimone è stato degnamente ereditato da Nicola Spinosa, che ha continuato, incrementandola, l’opera meritoria del predecessore.

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Causa con Pertini

Senza dimenticare la luminosa figura di Ferdinando Bologna, che dopo sessanta anni di indefessa attività, durante la quale ha investigato ogni angolo della pittura napoletana dalle origini, ha recentemente organizzato una esaustiva mostra su Antonello da Messina.

Con Raffaello Causa in accesa quanto rispettosa competizione, percorse le tappe del cursus honorum. Furono per trenta e più anni i numi tutelari degli studi, sulle arti figurative meridionali, felice connubio tra amministrazione dello Stato ed università, a tal punto da essere definiti, giustamente, i due Dioscuri. Vi furono poi per entrambi l’incontro con il gran maestro. Il Longhi, che da Firenze pontificava sull’arte europea ed aveva aperto quella leggendaria palestra intellettuale costituita dalla rivista Paragone, della cui redazione faranno parte assieme alla crema della intellighenzia italiana: Arcangeli, Bologna, Briganti, Gregori, Toesca, Volpe e Zeri.

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Ferdinando Bologna

Nel cenacolo, dominato dalla figura incontrastata del sovrano, si parlava un linguaggio forbito, una vera e propria lingua con desinenze particolari. A parte il lessico del Longhi, inimitabile, si oscillava dal periodare del Briganti, che in età matura sarà la stella di un grande quotidiano italiano, alla costruzione della frase sontuosa e neo proustiana di Arcangeli.

La pittura napoletana ha potuto godere di intonati cantori, che ne hanno permesso una conoscenza da parte di un pubblico internazionale, attraverso una serie ininterrotta di mostre di inusitato spessore culturale, partite da Napoli per approdare nei più celebri musei del mondo.

Sotto il regno di Causa si partì con Civiltà del settecento, seguita dalla memorabile mostra sul Secolo d’oro, mettendo così in moto un circuito virtuoso che non accenna a fermarsi e che fa di Napoli una indiscussa capitale delle arti figurative.

Tutto cominciò nel 1938 con la mostra della Pittura Napoletana del 600-700-800, tenutasi nelle austere sale del Maschio Angioino e fortemente voluta da Mussolini.

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Ugo Ojetti

La mostra di Napoli nacque dall’idea del geniale e ambiguo Ugo Ojetti, Accademico dell’ Italia fascista e animatore culturale, che capì come dalla mostra di Firenze sul Seicento e Settecento in Italia (1922) potesse nascere una rassegna sui secoli dell’arte migliore di Napoli. Tale visione è all’ origine di tutte le ricostruzioni successive, che hanno posto i «Tre secoli» al centro della storia delle arti a Napoli con esiti controversi: da un lato il lungo oblio di quasi tutto ciò che in città risale a prima del Seicento, e anche di quanto continuò a prodursi dopo l’Ottocento fino al 1938. Dall’altro lato l’aporia - tipica del fascismo - tra la retorica vuota e l’organizzazione, ben più efficiente di quella di oggi; lo iato tra il mix ideologico che alimentava la politica culturale del regime e il peso dei contributi in catalogo, con cui generazioni di studiosi si sarebbero misurate nei decenni successivi.

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Il re Vittorio Emanuele in visita alla mostra

Il catalogo della mostra, mai ristampato, costituisce un libro cult, una chicca antiquariale che non può mancare dalla biblioteca dei napoletanisti e che ricordo, dopo lunghe ricerche, riuscii ad acquistare per un milione.

I tre curatori: Sergio Ortolani, Costanza Lorenzetti e Michele Bianca stilarono dei saggi sui quali si sono confrontati generazioni di studiosi ed intellettuali, generando l’immagine attuale della pittura del Seicento. Immagine perpetuata in mostre, libri, saggi infittitisi dal dopoguerra ad oggi in un sedimento di filologia, acquisizioni, ma anche ritorni indietro dei lavori di studiosi giovani e dilungo corso.

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Parata militare per la mostra sui tre secoli della pittura a Napoli

La mostra di Napoli fu un unicum per la Città ma non per la vita italiana del tempo. La sola mostra su Augusto Imperatore (Roma, 1937) fa capire come il Fascismo producesse eventi fondati sulla retorica e la demagogia ma affidati a studiosi, curatori, tecnici di primo piano, in grado di produrre ricerche di grande portata scientifica. Piaccia o no, in molti ambiti - compresa la storia dell’arte - dopo l’ultima guerra si ricominciò da dove il Fascismo era stato interrotto. Ed è triste prendere atto come gli eventi culturali abbiano fatto passi indietro nella considerazione sociale dell’Italia dei nostri giorni, che vergognosamente annovera ministri i quali perentoriamente affermano che “con la cultura non si mangia”.

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Cravaggio, Le sette opere di misericordia
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Caravaggio flagellazione
 

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