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PER LA LIBERTA’ D’ITALIA E L’ONORE D’ISRAELE

No, non siamo sempre stati come purtroppo siamo ridotti oggi.
giovedì 14 ottobre 2010 di Michele Penza

Argomenti: Storia
Argomenti: Ricordi


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Se chiudo gli occhi, e mi concentro nel ricordo, li sento ancora quei due colpi secchi, di pistola, in rapida successione. Segue un istante di silenzio angosciato, infine un vocio subito soffocato. Un uomo si contorce sul marciapiede, mentre due figure con impermeabile e cappello a lobbia gli sono addosso e una terza persona corre verso la macchina grigia. Sono circa le dieci di mattina di una sonnacchiosa domenica del 1944 e gruppetti di gente, uscita dalla messa delle orsoline nella chiesetta di via Livorno, man mano che arrivano alla svolta di via Stamira si trovano d’improvviso di fronte alla scena dell’uomo che agonizza sul marciapiede.

I due sbirri in borghese invitano seccamente a circolare e quelli impauriti e imbarazzati passano oltre affrettando il passo e distogliendo lo sguardo. Se morisse un cane potrebbero esternare la loro pietà ma quello che muore è soltanto un uomo e la paura li domina. Ora so chi è quell’uomo. Ho il suo nome scolpito nella memoria ma so che lo è anche sulla pietra, su una lapide murata sulla parete esterna del Tempio, ed ogni volta che mi trovo a passare sul lungotevere de’ Cenci alzo sempre gli occhi a rileggere quel nome, che ho cercato invano di trovare sul Messaggero del giorno successivo in quel trafiletto di cronaca che dava genericamente notizia della cattura d’un pericoloso sovversivo.

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Si chiamava Eugenio Colorni, ed è caduto, come recita la lapide, per la libertà d’Italia e per l’onore del popolo d’Israele. Sta quel nome sulla pietra in buona compagnia, assieme a quello di Leone Ginzburg e di altri tredici ebrei romani militanti nella resistenza.

Quella scena, quelle immagini che venivano a sommarsi a tante altre esperienze rivelatrici vissute in adolescenza, hanno contribuito molto a sollecitare in me una riflessione critica su tutta la mia visione di allora di fatti quotidiani e di avvenimenti storici di cui eravamo testimoni e partecipi. Negli anni di scuola le strutture educative e formative avevano determinato in me come in tanti altri giovani un’adesione acritica e fideistica a una concezione utopica e romantica di dedizione alla patria nobile e pura eternamente assediata da nemici invidiosi e malevoli. Naturalmente la patria si identificava e veniva impersonata dal monarca, dal capo carismatico del fascismo e altri personaggi del genere. Una deviazione della mente con incrostazioni rugginose dell’intelletto difficili da staccare in un ragazzo senza forti sollecitazioni.

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Il risveglio da questo sonno della ragione è stato quanto mai sgradevole e duro. I nostri maestri del passato ci si sono improvvisamente rivelati dei palloni gonfiati, e furono i primi a dare addosso vilmente a coloro che fino a quel momento avevano incensato senza dignità.

Quello che più mi ha amareggiato e deluso è il constatare il vuoto etico di cui erano sostanziate tutte quelle istituzioni sulle quali fondavo assoluta fiducia. Vedere coi miei occhi membri della cosiddetta “pubblica sicurezza” ammazzare brutalmente un uomo disarmato che tenta solo di fuggire alla cattura mi apre la mente e mi fa riflettere su tante altre cose che a quei fatti si connettono. Ho cominciato da allora a rivedere tutte le mie certezze e a tutt’oggi che ho ottanta anni non ho ancora terminato.

C’era una guerra in corso e avevamo appreso a nostre spese che anche quella ha le sue regole. Sentivo parlare della convenzione di Ginevra e sapevo che ci si era accordati per il rispetto reciproco dei feriti e dei prigionieri. Era interesse di tutti il conservare quanto è possibile di umanità, pure nel corso di un conflitto senza paragoni nella storia per l’ampiezza delle stragi, ma in quella guerra civile che ci dilaniava nel ‘44, sia pure limitata nelle dimensioni e negli scenari, la crudeltà non trovò argini che la contenessero. Assieme alle regole del fair play e della cavalleria vennero impietosamente stracciate tutte le ipocrisie e le pagliacciate di cui ci eravamo imbevuti per due decenni in fatto di umanità, di senso dello stato e di senso civico: contenitori vuoti che ora mi apparivano quali erano in realtà, grotteschi e irreali come le zucche di Halloween.

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Avvertii in quella occasione un fenomeno nuovo. Fino a quel giorno il termine sovversivo aveva suscitato in me un senso di ostilità e di repulsione, era per me sinonimo di delinquente, ma con una carica spregiativa ancora maggiore. Non saprei dire perché quel sovversivo, che avevo visto agonizzare innanzi alla gelida impassibilità degli sbirri ed alla pavida indifferenza dei buoni cristiani che affrettavano il passo per levarsi dai guai il più presto possibile, non mi aveva suscitato nulla del genere. Chissà perché qualcosa in me scattò quella mattina in cui confusamente sentii che quella morte toccava anche me, che in me stava nascendo una consapevolezza nuova.

In realtà mi è accaduto di perdere, nel momento stesso in cui l’avevo conosciuto, il primo di tanti bravi compagni socialisti che ho incontrato nella mia lunga militanza di partito che ancora oggi orgogliosamente rivendico, ma allora tutte queste cose non le sapevo, ne ho preso coscienza solo molti anni dopo. Si trattava, come ho già detto, di Eugenio Colorni, un giovane e coraggioso redattore ebreo dell’Avanti clandestino.

Perché, mi chiedo, sto a rivangare certi ricordi? Malinconie di anziano, certo, ma forse non solo per questo e non solo per me stesso ma anche perché, nel caso in cui anche uno solo dei giovani di oggi dovesse leggere queste mie righe, vorrei sapesse che no, non siamo stati sempre così come purtroppo ci vede oggi.

P.S.

Per altre informazioni su Eugenio Colorni si può consultare il sito del Comitato Nazionale che porta il suo nome.


 

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