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IL RAFFAELLO di VITTORIO SGARBI

di ELEONORA DAGGIANTE
giovedì 10 ottobre 2019

Argomenti: Teatro


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Quando si parla di Vittorio Sgarbi, non so perché ma si ha come l’impressione di avere una sottilissima irritazione, una sorta di preconcetto mentale che lo associa ai battibecchi dei talk show, o alle scelte della sua carriera politica e si dimentica, anche solo per un secondo, che Sgarbi in verità è altro, è principalmente altro: un grande appassionato e cultore dell’arte.

Partecipare quindi allo spettacolo "Raffaello" è stata per me tutt’altro che una bellissima occasione: è stata in verità una grande scoperta. Scoperta non solo per quello che Raffaello è e rappresenta in sé, ma scoperta di come i miei occhi hanno iniziato a guardare quei dipinti grazie al racconto di Sgarbi.

Perché Sgarbi ha questo potere: le bellezze e le bruttezza dell’arte te le butta in faccia, te le spiattella a tal punto da farti sentire inadeguato per non aver mai avuto un’elevazione di animo tale da rendertene conto prima. E io nello spettacolo di Raffaello mi sono resa conto di tante cose: ho capito che in verità quella bellezza ideale, quella perfezione quasi fastidiosa dei suoi dipinti altro non erano che una rappresentazione dell’idea di quel quadro.

L’arte di Raffaello è un’arte che non ti colpisce con l’emozione da impatto, ma è sublime, ne comprendi la grandezza e la bellezza quando ti arriva alla mente. L’arte di Raffaello è la capacità di cristallizzare immagini in concetti che, proprio perché perfetti ed inimitabili, hanno avuto il potere di influenzare i pittori contemporanei del 500 fino all’arte postuma.

Sono concetti di spazio, di morbidezza della carne, di paesaggi lontananti che non vogliono rendere tutto carnale, terreno e brutta mente reale, no, si elevano.

Per capirne il senso, il viaggio di Sgarbi ha dovuto inevitabilmente passare per l’analisi di altri grandissimi pittori, i più sconosciuti ai libri che ci propinano a scuola. Un viaggio lungo rispetto al quale Sgarbi non rimane soddisfatto. E come potrebbe esserlo: lui spazia, confronta, paragona, e ti coinvolge a farlo insieme a lui, a tal punto che il tempo sembra non bastare mai.

La capacità invidiabile di Sgarbi è stata quella di spiegare l’arte con concetti semplici, scegliendo con cura parole, racconti, sonetti che ne fossero all’altezza e che in quel momento ti davano una possibilità bellissima : quella di capire. Sì perché grazie a Sgarbi riuscivi a capire il senso di tutto: voler abbattere i muri dell’arte rinchiusa in compartimenti stagno, e concepire lo spettacolo come un vero viaggio tra gli autori non solo di quel tempo, poteva essere considerata un’impresa ardua, poteva farti pensare di non essere in grado di capirne la logica, di tenerne il filo.

E invece Sgarbi riusciva ad appassionarti, riusciva a renderti curioso del quadro successivo di cui incredibilmente ne capivi il senso.

Uno spettacolo azzardato però: la lunghezza può essere un’arma a doppio taglio perché da una parte seleziona chi davvero si è appassionato ma dall’altra spiattella una amara consapevolezza, ossia che la gente si sta provando pian piano della bellezza di gustare l’arte.

Personalmente mi sono rimproverata di non aver visto altri spettacoli di Sgarbi di questo tipo e quando ne capiterà l’occasione lo farò. Quasi si potrebbe definire il Piero Angela dell’arte! Ma una cosa lo contraddistingue: la fastidiosa irriverenza che ha di non smentirsi mai e di intervenire anche in spettacoli come questi con i suoi giudizi e critiche sull’attualità.

Ma in quel momento, anche se possono essere uscite fuori luogo, capisci che non è lo stesso Sgarbi che urla "Capra" in tv, è uno Sgarbi che ti inchioda alla poltrona con il suo sapere e ti fa capire che c’è ancora tempo per apprezzare e a mirare l’arte di cui fino a quel momento ti sei privato.

 

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