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Le bandiere, la memoria e la realtà

La verità non ci deve sorprendere: per gli atesini la grande guerra non può essere che un orribile ricordo!
lunedì 1 giugno 2015 di Michele Penza

Argomenti: Attualità
Argomenti: Opinioni, riflessioni


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La storia, perché possa veramente insegnare qualcosa, ha bisogno anzitutto di essere conosciuta e poi raccontata ai posteri con obiettività ed onestà intellettuale. E’ consigliabile a tal fine da una parte l’uso di termini chiari e strumenti adeguati (sempre meglio la prosa scarna di Tito Livio o di Erodoto che il verso commosso ed enfatico di Omero e di Tirteo), dall’altra l’umiltà di cercare sempre la verità senza indulgere ai pregiudizi.

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La Stampa 24 maggio 1914

Dico questo perché ha suscitato ancora una volta sorpresa e disappunto la notizia che la celebrazione del 24 maggio 2015, ricorrenza dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, abbia trovato accoglienza gelida e distaccata più o meno in tutta la regione Trentino-Alto Adige. Quei comuni che hanno esposto il tricolore sugli uffici pubblici lo hanno fatto obtorto collo forse più per il timore di sanzioni che per condivisione, e comunque lo hanno esposto a mezz’asta in segno di lutto trasmettendo in quel modo un chiaro messaggio di scarso gradimento. Qualche altro comune credo che non lo abbia esposto affatto ma questo può sorprendere solo chi non conosce la realtà di quei territori.

In quei posti, che amo, ci vado tutte le estati e non mi stanco mai di parlare con quella gente, di interrogarla su quegli eventi, di suscitare i loro ricordi personali e di provocarli affinché sinceramente possano confidarsi ed esprimere i loro sentimenti veri, raccontarmi quelle storie che vengono fuori solo dopo anni che ci si conosce, davanti a un bicchiere di vino, guardandosi negli occhi che vedi inumidirsi quando si parla di una madre perduta da piccolo, si ricorda un padre caduto in combattimento, una casa che brucia che è la tua casa, quella dove giocavi da bambino

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Bandiera a mezzasta il 25 aprile 2015

No, quella guerra non è mai stata popolare nella valle dell’Adige. Ne avrebbero fatto molto volentieri a meno, a costo di restare come stavano, sottomessi all’Austria, che non era poi molto peggio dell’Italia. Certo, quelli di Cecco Beppe non scherzavano, se commettevi un delitto ti impiccavano senza complimenti, ma bastava che un galantuomo stesse alle regole e campava tranquillo cento anni. Non c’era quel ladrocinio, quella confusione, quella inconcludenza che contrassegna l’amministrazione nostra. Norme semplici e chiare e tassazione non esosa, distaccata dall’economia reale delle persone, come è quella nostra.

L’irredentismo? Sì, c’era una minoranza di intellettuali e di studenti che lo propugnava ma nessuno mai, potendo scegliere, avrebbe accettato l’annessione all’Italia sapendo di dover affrontare quel coacervo di morte, di sofferenze e di guai che ha rappresentato la cosiddetta prima guerra mondiale. Si riteneva generalmente che l’impero asburgico fosse in una fase di declino irreversibile e che prima o poi il processo di disfacimento avrebbe condotto naturalmente all’abbandono pacifico di vari territori periferici. Quanto volete che tenesse Vienna a quelle quattro montagne del Trentino? Non era di pietraie che sentiva il bisogno. A Trieste, a quel porto sì, che non avrebbe mai rinunciato, era l’unico di cui disponesse!

Questo è ciò che ti dicono gli atesini di lingua italiana. Quelli di lingua tedesca invece, non ti parlano affatto di queste cose. Le danno per scontate.

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Condanne a morte a italiani

Le loro considerazioni sono ben altre. Ci accusano di doppiezza. Noi eravamo membri della Triplice Alleanza e all’inizio della guerra gli Imperi Centrali non ci avevano chiesto di fiancheggiarli. Bastava loro che ne restassimo fuori, ci speravano e ci credevano che lo avremmo fatto, tanto è vero che il confine austriaco dalla nostra parte era del tutto sguarnito. Non ci perdoneranno mai di averli traditi e ci rinfacciano anche un’altra slealtà, vera o presunta, non ho elementi per stabilirlo. Quella di non aver fermato l’avanzata delle truppe il 3 novembre 1915 ma di aver proseguito la corsa fino alla Val Pusteria per tutto il 4 novembre portando il confine ai termini attuali. Sostengono che gli impegni erano diversi.

Comunque le cose siano andate la realtà attuale è che pur avendo cittadinanza italiana gli abitanti autoctoni della provincia di Bolzano italiani non sono e soprattutto non ci si sentono. In realtà neppure noi inconsciamente tali li consideriamo perché quando ne abbiamo ammazzati trentadue a Roma in via Rasella abbiamo sostenuto che fossero tedeschi.

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Fucilazione di condannati italiani

Facciamocene finalmente una ragione: è così. E’ pure vero che le ragioni politiche e militari di quella forzata annessione, legittima o no che sia stata, ormai non ci sono più e l’unico motivo per cui ancora sussiste è che l’andare a ritoccare questa situazione potrebbe scatenare aspettative legittime in tante altre situazioni simili di minoranze che esistono in Europa e fuori, scatenando una reazione a catena pericolosa dalle conseguenze imprevedibili

Quello che serve ora è trovare le condizioni per la migliore convivenza possibile con quella minoranza etnica, trattandola con equità e rispetto, e non cercare di captarne una benevolenza malmostosa e sussiegosa con una profusione di benefici e di soldi esagerata come è stato fatto finora. I tirolesi sono pragmatici. Hanno capito che tenere il broncio rende e seguiteranno altrimenti su questo tenore all’infinito.

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In trincea in attesa di andare all’assalto

Quanto ai trentini di lingua italiana io stesso ignoravo e l’ho appreso di recente che diverse migliaia di persone che risiedevano ai margini dell’altopiano di Asiago e nelle zone di confine più esposte al fuoco delle artiglierie furono trasferiti in tutta fretta (i loro figli veramente dicono deportati) in Moravia, che è in posizione centrale rispetto ai tre teatri di guerra, francese, russo e balcanico. Trovarono accoglienza fraterna (su questo punto, magari, oggi preferiscono glissare), e quando dopo cinque anni vennero rimpatriati trovarono le loro case diroccate e le loro terre occupate o devastate. Quelli che invece erano restati nei loro paesi vi trascorsero quattro anni indimenticabili, di cui dovremmo avere contezza e considerazione quando chiediamo ai loro figli di festeggiare il giorno di inizio di quella guerra che ha portato loro lutti, scempi e rovine.

Osservando una targa stradale di Levico, intestata al 3 di novembre 1918, feci notare a un amico del posto che in tutti i comuni d’Italia ce n’è una simile ma intestata al quattro di novembre. “Il 3 è stato firmato l’armistizio - mi rispose - e così sono terminati quattro anni d’inferno. Il 4 per noi non ha alcun significato particolare. Festeggiare una vittoria che ci costa seicentocinquantamila morti? E pure quelli che abbiamo ammazzato noi a loro non sono forse uomini? Guardati in giro quanti cimiteri di guerra ci sono qua: ce li vedrai accanto, gli uni agli altri e sono tanti, troppi, direi! Festeggia tu il 4, io non me la sento davvero, credimi, a me non pare d’aver vinto nulla. Quella volta ha deciso il Re assieme a qualcun’altro, ora potremmo decidere noi. Sei sicuro che la rifaremmo una scelta del genere?”

Io una risposta scontata non ce l’ho. Mi pare che resti una discussione aperta, con tanti aspetti da considerare. Forse varrebbe la pena di farcela tutti sopra qualche riflessione.-

 

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