Il libro recentemente licenziato dall’editore De Luca raccoglie quella che possiamo definire la summa delle indagini intorno ad uno dei temi più significativi ed emblematici delle opere giovanili di Caravaggio, quello della natura morta, destinato peraltro se non ad inaugurare almeno a delineare e promuovere un vero e proprio ‘genere’, che –precisamente in ragione dei capolavori del Merisi- tanto si affermerà nella pittura successiva, fino ai nostri giorni.
A cimentarsi in un compito così complesso ed impegnativo, non poteva che essere un vero esperto in questo campo, uno studioso pisano ben conosciuto e preparato come Franco Paliaga, peraltro da tempo occupato a fare luce su questa materia.
Egli prende in esame in particolare i capolavori giovanili di Caravaggio con l’obiettivo non certo di definire in via risolutiva le questioni che ancora fanno dibattere e divergere il mondo dei cosiddetti ‘caravaggisti’, bensì per fornire una sua originale chiave di lettura, capace nello stesso tempo di richiamare i problemi sul tappeto e di delineare una credibile soluzione.
Questo, a partire dall’indagine iconografia, dal momento che, come suggerisce l’autore “gli studiosi hanno dedicato poca attenzione allo studio dell’iconografia nel suo insieme”, cominciando proprio da quello che può essere considerato – insieme alla famosissima Fiscella (Fig. 1) della Pinacoteca Ambrosiana di Milano- un vero ‘manifesto’ di natura morta, ossia la famosa ‘caraffa di fiori’, un dipinto del Caravaggio che Paliaga, come molti altri esperti, ritiene disperso (ma sul quale avremo modo di ritornare), e che tuttavia compare nel capolavoro a tutti noto come Il suonatore di Liuto (Fig. 2) oggi all’Ermitage di San Pietroburgo, sul quale in verità –come in molte opere del Merisi, a cominciare proprio dalla misteriosa ‘caraffa di fiori’- sono stati versati fiumi di inchiostro.
E non per caso il primo capitolo del libro di Paliaga è dedicato proprio alle Interpretazioni della Caraffa di fiori nei dipinti di Caravaggio.
Vale chiedersi per quale motivo il grande artista lombardo l’avesse inserita “in una scena eminentemente a carattere musicale”, e quindi che significato possa averle attribuito nell’economia complessiva del dipinto, considerando altresì che la seconda versione dell’opera –anche questa riconosciuta come autografa- che si trova al Metropolitan Museum di New York (Fig. 3) presenta altri elementi al posto della caraffa, oltre a numerose varianti.Il problema secondo Paliaga consiste innanzitutto nel leggere l’opera nel suo insieme, senza isolarne i particolari, perché solo lasciandoli collegati si può arrivare all’idea originaria dell’autore.
Ma seguiamo il ragionamento preciso dello studioso che, a questo riguardo, presenta notazioni tutt’ altro che scontate che conducono ad una conclusione in larga misura inaspettata:“ Se è condivisibile l’idea che le labbra appena socchiuse del cantore con la lingua che va a toccare il palato … sono segnali che fanno intendere che il giovane stava cantando, è altrettanto vero che il giovane ha gli occhi leggermente bagnati di lacrime … (Fig. 4) segno inequivocabile che egli sta piangendo”.
E se a ciò si aggiungono elementi estremamente allusivi, come la corda del violino spezzata, l’ammaccatura evidente nella cassa del liuto, la frutta anch’essa ammaccata; ne deriva “un senso di precarietà ed instabilità” .Insomma, è come se l’artista volesse “alludere alla vacuità ed alla precarietà della vita, essendo i fiori recisi destinati presto ad appassire ed a morire, mentre lo stesso contenitore è fragile per via della stessa materia con cui è fatto”.
Ecco dunque affacciarsi -al di là di ogni altra considerazione- il ben preciso tema delle “passioni che non trovano soddisfazione” in cui “ le componenti iconografiche, quella musicale e quella naturalistica, rimandano al concetto di vanitas”. Si tratta insomma, a parere dello studioso, di un’arte collegata strettamente alla morale, di cui il dipinto in questione è un preciso exemplum .
D’altra parte il Merisi, dipinse altri soggetti rappresentandovi una caraffa di fiori; è il caso, a parere di Paliaga (un parere, va chiarito, accettato da alcuni ma non da tutti gli studiosi) di un discusso Ritratto di Maffeo Barberini (Fig. 5) il futuro Papa Urbano VIII , in collezione Corsini a Firenze, dove “la presenza della caraffa di vetro –viene sottolineato- riconduce al tema della vanitas”, sia pure a fronte di un’interpretazione non univoca (il libro su cui poggia la mano il prelato allude alla parola scritta che rimane nel tempo, mentre i fiori recisi in breve appassiscono).
Emblematico è anche il caso de Il ragazzo morso dal ramarro (Fig. 6) (nonchè di un dipinto come Il ragazzo con vaso di rose (Fig. 7) da molti creduto il suo pendant ) se accettiamo l’idea che Caravaggio con questo lavoro volesse mettere in guardia verso l’attrazione per i piaceri della vita i quali si trasformano in sofferenza se non si presta la dovuta attenzione ai pericoli in essi insiti.
Sotto questo punto di osservazione andrebbe letto anche Il ragazzo che sbuccia il melangolo (8) fatto oggetto di numerose copie che ne testimoniano oltre che il successo commerciale anche il valore emblematico che richiama addirittura alla “mitologia nordica… di origine gaelica” ; come scrive Paliaga “il gesto di sbucciare un frutto costituiva un atto divinatorio sulla durata della vita: più lunga era la buccia pelata con il coltello senza spezzarla (ed è quello che sta facendo il giovane nel dipinto) più lunga sarebbe stata la vita”.
Questo tipo di lavori tanto ricchi di interpretazioni simboliche erano naturalmente appannaggio di una ristretta elite di committenti altolocati, in grado di apprezzarne il valore allegorico.Ma una grande attenzione Franco Paliaga dedica meritoriamente anche a come poi il genere prendesse piede grazie allo “sdoganamento” operato dall’ancora misterioso Maestro di Hartford, contemporaneo del Caravaggio, il quale trasformò il genere stesso “in alto prodotto di commercio e di ampio consumo”.
Ma come si verificò in definitiva la rottura di schemi e valori artistici stereotipati operata dalle rivoluzionarie novità apportate dal Merisi ?
Molto importante, a questo proposito, è la messa a fuoco dei rapporti che intercorsero tra lui stesso, appena arrivato a Roma, e Giuseppe Cesari, alias il Cavalier d’Arpino (Fig. 9), nel cui atelier, com’è noto, il genio lombardo mosse i primi passi della sua sfolgorante carriera.
L’autore indaga i motivi che portarono i due artisti ad una relazione definita “burrascosa” e che anzi a suo parere va inquadrata in un autentico scontro generazionale, dal momento che proprio con la ‘caraffa di fiori’, vale a dire con una pittura che raffigurasse le cose in maniera diretta fuori dagli schemi della tradizione classica e rinascimentale, Caravaggio iniziò a “dipingere tele dai forti contenuti simbolici e ispirati al naturale…”
Da quanto detto si evidenzia l’enorme rilievo che l’enigmatico dipinto assume; esso era stato realizzato per il cardinale Francesco Maria Del Monte (Fig. 10) – primo protettore romano del Merisi nonché proprietario di altri suoi dipinti- nel cui inventario post mortem infatti era così descritto: “un quadretto nel quale vi è una caraffa di fiori di palmi due”.
Si tratterebbe, secondo il parere del compianto Maurizio Marini, probabilmente il più attento studioso di Caravaggio, di un dipinto da lui stesso ritrovato e pubblicato (Fig. 11) emblematicamente intriso di chiari significati cristologici (cfr M. Marini, Caravaggio ‘Pictor praestantissimus’ Roma, 2005, n. 26, pagg. 180-181, 416-418); ma è un parere accettato da pochi studiosi.
E tuttavia, al di là del problema attribuzionistico, Paliaga affronta, in uno dei passi a nostro avviso più significativi del suo libro, ancora una volta la questione in modo del tutto originale, proponendo una lettura particolare del lavoro di Caravaggio, richiamandone la formazione iniziale, allorquando era garzone nella bottega di Simone Peterzano, a partire dal 1584, lo stesso anno in cui veniva pubblicato il noto Trattato dell’arte della pittura della scoltura e della architettura di Giovan Paolo Lomazzo, che dedicava un famoso passo del libro giustappunto al tema De gli effetti che partorisce lo lume nei corpi acquei.
Ed in effetti, gli “interessi ‘naturali’ di Caravaggio” nonché la sua pratica, come Paliaga mette bene in rilievo, ben si coniugavano con la passione di Del Monte anche riguardo a vetri e cristalli di cui il porporato vantava una preziosa collezione, tanto da poter avanzare l’ipotesti che la ‘caraffa’ venisse dipinta a bella posta come una sorta di “strategia di avvicinamento del pittore nei riguardi del suo futuro committente e mecenate” del quale evidentemente conosceva i gusti.
Si tratta di una delle tesi centrali del lavoro dello studioso pisano secondo il quale, dunque “l’interesse per le materie trasparenti, translucide, costituite dalla miriade di forme di vetro forgiate dall’uomo” fu il trait d’union tra il cardinale ed il pittore, senza però trasformare Caravaggio –tiene a precisare lo studioso- in una sorta di “scienziato o novello teorico dell’immagine moderna” (cfr in proposito, Scena Illustrata 1° aprile 2012, Indagine su una rivoluzione artistica )
Il libro di Paliaga si chiude evidenziando la fortuna che il tema della ‘caraffa di fiori’ ebbe nella pittura italiana del seicento.Ed è davvero un libro da prendere in considerazione : al contrario di molte vacue pubblicazioni dedicate al genio di Caravaggio, infatti, crediamo sia tra i pochi che ne indagano l’opera con competenza ed originalità.A conclusione di queste note, dobbiamo però chiarire al lettore che, in questa breve disamina dei temi iconografici individuati o sottolineati con molto acume dallo studioso pisano, abbiamo volutamente tralasciato ogni considerazione sull’autografia caravaggesca delle opere che l’autore, nel suo dotto e lineare excursus, ha preso in esame, dal momento che non c’è l’unanimità degli studiosi su alcuni dipinti.
Si pensi al Ritratto di Maffeo Barberini in collezione Corsini ritenuto autografo ad onta delle palesi incertezze esecutive, per non dire delle testimonianze documentarie che lo assegnano ad altro artista o, al contrario, a Il ragazzo che sbuccia il melangolo almeno in un caso (vedi Fig. 8) stilisticamente del tutto pertinente alle opere del Merisi, mentre Il ragazzo con vaso di rose che l’autore – e non lui solo per la verità- dice disperso, viene considerato autografo da Mina Gregari, Marini e Mahon.
Detto questo, va anche chiarito però che Paliaga non ha affatto espresso o voluto definire in modo assoluto le varie questioni aperte su questo fronte delle ‘attribuzioni’ delle opere di Caravaggio, a tutt’oggi e chissà per quanto tempo ancora pendenti; al contrario, il suo lavoro ha il grande merito di mettere a disposizione degli studiosi - ma non solo- un materiale ragguardevole di dati e riflessioni nuovi ed originali, che fanno il punto su aspetti come abbiamo visto molto rilevanti, relativi all’opera di uno dei geni della pittura di tutti i tempi