INFORMAZIONE
CULTURALE
Marzo 2024



HOME PAGE

ARCHIVI RIVISTA

Articoli on-line 7647
Articoli visitati
5084842
Connessi 20

INDICE GENERALE
INDICE MENSILE
RUBRICHE
PASSATO E PRESENTE
EVENTI
ITINERARI E VIAGGI
AVVOCATO AMICO
COSTUME E SOCIETA’
QUADRIFOGLIO
TERZA PAGINA
LETTURE CONSIGLIATE
CULTURA
SCIENZA E DINTORNI
FILATELIA
ARTE E NATURA
COMUNICATI STAMPA
MUSICA E SPETTACOLO
SPORT
ATTUALITA’
LIBRI RECENSITI
AUTORI
Argomenti

Monitorare l'attività del sito RSS 2.0
SITI AMICI

a cura di
Silvana Carletti (Dir.Resp.)
Carlo Vallauri
Giovanna D'Arbitrio
Odino Grubessi
Luciano De Vita (Editore)
On line copyright
2005-2018 by LDVRoma

Ultimo aggiornamento
27 marzo 2024   e  



Sito realizzato con il sistema
di pubblicazione Spip
sotto licenza GPL

Napoli e la napoletanità nella storia dell’arte

Una raccolta di articoli già pubblicati su napoli.com
domenica 19 settembre 2010 di Achille della Ragione

Argomenti: Arte, artisti


Segnala l'articolo ad un amico

Il Maestro dell’Annuncio ai pastori precursore della questione meridionale

Fiumi di libri ed articoli sono stati dedicati alla questione meridionale ed alle eclatanti differenze nel tenore di vita tra regioni settentrionali e meridionali; fior di intellettuali, politici ed economisti, da Giustino Fortunato a Rossi Doria, fino a Compagna, fondatore della mitica rivista Nord e Sud si sono arrovellati per cercare una soluzione a palesi ingiustizie e molti, anche tra gli storici, credono che la delicata questione sia sorta dopo l’unità di Italia, ma il problema è di più antica origine come ci dimostrano, con la rara eloquenza del loro pennello, un gruppo di agguerriti pittori del secolo d’oro, in particolare tra questi, nel solco del naturalismo di lontana matrice caravaggesca e sempre nell’orbita del Ribera sanguigno e dal tremendo impasto è da collocare, tra la fine del secondo decennio e l’inizio del successivo, la comparsa sulla scena artistica napoletana di un pittore dal fascino singolare e dalla tematica originalissima, che gli studiosi collocano sotto il nome convenzionale di Maestro degli Annunci ai pastori dal soggetto di suoi numerosi dipinti conservati in vari musei e raccolte private da Capodimonte (fig. 1) a Birmingham, da Brooklyn a Monaco di Baviera.

JPEG - 41.9 Kb
fig. 1 - Annuncio ai pastori - museo di Capodimonte

Il Maestro degli Annunci ai pastori va collocato idealmente in quel gruppo di artisti di cui in seguito faranno parte Domenico Gargiulo, Aniello Falcone, Francesco Fracanzano e soprattutto Francesco Guarino, i quali saranno impegnati in un’accorata denuncia delle misere condizioni della plebe, dei contadini e delle classi popolari e subalterne. Una sorta di introspezione sociologica ante litteram della questione meridionale, indagata nei volti smarriti dei pastori, dalla faccia annerita dal sole e dal vento, dei cafoni sperduti negli sterminati latifondi come servi della gleba; immagine di un mondo contadino e pastorale arcaico, ma innocente e la cui speranza è legata ad un riscatto sociale e materiale, che solo dal cielo può venire, come simbolicamente è rappresentato dall’annuncio ai pastori, il cui sostrato e l’iconografia religiosa sono solo un pretesto di cui il pittore si serve per lanciare il suo messaggio laico di fratellanza ed uguaglianza.

Le condizioni di vita e di lavoro di contadini e pastori sono state per millenni dure dovunque, ma nel profondo sud, sia sotto gli Spagnoli che sotto i Borbone, sono state ulteriormente aggravate dall’abbandono al suo destino del latifondo, utilizzato unicamente per ricavare un reddito da parte di una classe sociale ottusa e rapace.

Il pittore è rimasto ancora anonimo, nonostante la recente, ma non convincente, proposta da parte della critica di identificarlo con lo spagnolo Juan Do, perché l’iconografia dei suoi dipinti era rivoluzionaria e di conseguenza nessuna committenza pubblica gli è stata mai assegnata né dalla Chiesa, né dalla nobiltà, da cui la mancanza di documenti di pagamento negli archivi cittadini. La sua attività copre un arco di poco meno di trenta anni, durante i quali vi fu un lungo periodo di vigorosa e rigorosa adesione al dato naturale, spinto oltre i limiti raggiunti dallo stesso Ribera, con una tavolozza densa e grumosa e con una serie di prelievi dal vero, dal volgo più disperato: una lunga serie di piedi sporchi, di calzari rotti e di vestiti impregnati dal puzzo delle pecore.I secoli sono trascorsi, ma la situazione poco è cambiata, mentre la forbice economica nei riguardi del nord si è ulteriormente divaricata. I giovani sono costretti a fuggire in cerca di un futuro migliore, dando luogo ad una diaspora che tronca anche la speranza di un’inversione di tendenza. Tutto nel silenzio degli artisti e degli intellettuali, infatti anche la loro voce  è divenuta fioca e nessuno più ascolta il loro canto disperato.

La veritiera storia della sfogliatella

La cucina napoletana è una delle più famose del mondo con alcuni piatti come gli spaghetti al pomodoro e la pizza che rappresentano un simbolo della gastronomia italiana all’estero. Meno gloriosa la pasticceria, ma con le dovute eccezioni, perché alcuni dolci sono molto conosciuti ed apprezzati come il sanguinaccio, la pastiera, gli struffoli, le zeppole di San Giuseppe e la sfogliatella. Meno noti, ma non meno saporiti: il casatiello, i taralli, il babà, i mostaccioli, i biscotti all’amarena, la pasta reale, la coviglia al caffè, i croccanti, la pizza di amarena e crema.

Nel Seicento andavano di moda tanti piccoli dolcetti, come quelli puntigliosamente descritti nei quadri di natura morta da Giuseppe Recco(fig. 3) o da Tommaso Realfonso(fig. 2), infarciti di miele e di marmellate, da mangiare letteralmente con gli occhi prima che con la bocca, tanta era la cura nel prepararli e la gentilezza nell’offrirli.

JPEG - 101.2 Kb
fig. 2 - Realfonso-Natura morta con dolciumi e fiori (Roma, Collezione privata)

I pittori napoletani erano abili quando rappresentavano fiori o frutta nel renderla talmente somigliante all’originale che, senza esagerazione, si poteva percepire l’odore ed il sapore, per cui raffigurando dolci e dolcetti ed avvicinandosi alla tela all’osservatore veniva letteralmente l’acquolina in bocca.

Erano la gioia dei salotti della nobiltà e della borghesia, ma non mancavano nei monasteri più a la page della città, affollati da fanciulle provenienti dalle famiglie più altolocate della città, che alternavano la preghiera ed il raccoglimento alle delizie del palato, gustando dolci, senza trascurare rosolio, nocillo ed effervescenti bevande zuccherate. Lo testimoniano i documenti di pagamento che zelanti ricercatori, un po’ ficcanaso, hanno reperito nell’archivio del Banco di Napoli. Tra i dolci partenopei il più famoso è certamente la sfogliatella della quale esistono tre tipi: riccia, frolla e la S. Rosa. Tutte hanno un ripieno identico e tre involucri e fogge diverse, le ricce a forma di conchiglia rivestite da un nastro di pasta sfoglia, tonde e morbide le frolle, più grandi ed arricchite di crema e confettura di amarene le S. Rosa.

Molti credono che la sfogliatella nasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di Conca dei Marini sulla costiera amalfitana, intorno al XVII – XVIII secolo, frutto dell’abilità culinaria di una sconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napoletani, da Santa Chiara alla Croce di Lucca, scopriremmo che tutti ritengono che il famoso dolce sia nato nelle proprie cucine e dirimere la verità è impresa ardua.

La scoperta recentissima di alcuni documenti in lingua latina ci permette di retrodatare l’invenzione del prelibato dolce ad oltre duemila anni fa. Pare infatti che già durante le feste priapiche, che si svolgevano nell’antica grotta di Piedigrotta, venisse distribuito ai contendenti per rifocillarsi un dolce energetico dalla forma triangolare, a rimembrare simbolicamente la forma dell’oggetto del contendere: il pube femminile. Gli effetti afrodisiaci sull’animosità dei giovani impegnati nei sacri riti deflorativi si racconta superassero i benefici corroboranti di un poderoso zabaione.

JPEG - 49.4 Kb
fig. 3 - Recco - Dolciumi - Banco Napoli

Nella grotta si svolgeva anche il culto a Venere genitrice, praticato dalle spose sterili, che invocavano la grazia della fecondità. Il rito si svolgeva durante tutto il mese di settembre sia all’interno che all’esterno della cripta. Alcuni volenterosi e ben dotati sacerdoti, grazie all’effetto di potenti afrodisiaci, tra i quali probabilmente anche l’iperglicemica antenata della sfogliatella, si attivavano in maniera biblica per ingravidare quante più donne possibile. Petronio, Seneca e Strabone ci raccontano che, mentre all’interno ci si impegnava per la riproduzione della specie, all’esterno, tra anfratti e cespugli, la plebe si abbandonava, al ritmico suono di rudimentali strumenti musicali, a multipli amplessi, in un’atmosfera delirante di eccitazione.

Dagli espliciti riti orgiastici al segreto del claustro è difficile ipotizzare il tortuoso cammino della ricetta, divenuta segreta e vanto di sacerdotesse della castità.

Ma intorno al Seicento qualcuna di queste monachelle, ansiosa di liberarsi del fardello di una noiosa verginità, fa amicizia con qualche baldo pasticciere, disposto  in cambio della ricetta a compiere il pasticcio… ed ecco che della sfogliatella possono godere tutti. Con un pizzico di fantasia questa dovrebbe essere la nuova storia della sfogliatella, vanto indiscusso della gastronomia campana e da oggi in poi  quando una fanciulla offrirà il prelibato dolce ad un astante le sue intenzioni saranno ben chiare.

La Madonna delle Grazie ed il delicato confine tra vivi e morti

Tutti sanno che Cristo si fermò ad Eboli, ma a Napoli il cristianesimo non ha mai sostituito completamente il paganesimo. Alcuni riti e miti sono stati trasformati dalla religione assumendo nuove sembianze, mentre altri sono rimasti più o meno invariati e tra questi un posto fondamentale è occupato dal delicato confine tra la vita e la morte, che caratterizza la credenza di gran parte della popolazione napoletana, adusa ad intrattenere con i trapassati un fitto rapporto, non solo preghiere, ma anche intercessioni e ottenimento di numeri sicuri da giocare al lotto, il gioco preferito da secoli all’ombra del Vesuvio.

JPEG - 22 Kb
fig. 4 - Marullo - Madonna con le anime del purgatorio

Questa commistione tra sacro e profano trova la sua glorificazione devozionale nell’iconografia della Madonna delle Grazie, detta anche Madonna delle anime purganti e non vi è pittore del Seicento che non si sia confrontato con questa tematica, per cui la nostra scelta è stata difficile ed alla fine avremmo dovuto orientarci verso la celebre pala dello Stanzione sita sull’altar maggiore della chiesa del Purgatorio ad Arco, uno dei luoghi più noti della città, devoluti a questo fecondo scambio di amorosi sensi tra vivi e morti. Abbiamo viceversa privilegiato una tela di Giuseppe Marullo(fig. 4), meno conosciuta, ma non meno bella ed affascinante, soprattutto per denunciare la vergognosa collocazione che da alcuni anni occupa, a dimostrazione lampante del disinteresse che autorità e popolazione nutrono verso il loro ineguagliabile patrimonio artistico. Essa infatti, proveniente dalla chiesa di S. Agostino alla Zecca, vergognosamente chiusa da tempo immemorabile, è posta in un locale del monastero di S. Chiara adibito al soddisfacimento delle più elementari pulsioni fisiologiche, in poche parole nei gabinetti.

Nella parte bassa del dipinto si accalca implorante una folla di anime in espiazione, ben distinte, per quanto si tratti di spiriti…, in maschi e femmine. In alto la fisionomia della madonna, con il patognomonico cono d’ombra sulla guancia sinistra, la firma criptata del pittore, è quella di una modella della quale il Marullo era segretamente invaghito, al punto da ripeterla per decenni immutata nei suoi quadri, senza che lo scorrere implacabile del tempo riesca a scalfire la serenità del suo volto. Particolare curioso la stessa modella si ritrova identica tra le anime in pena, a confermarci come la bellezza femminile possa condurci in egual misura verso la beatitudine o verso la dannazione.

I resti fisici delle anime del purgatorio si conservano, non solo nei cimiteri e nelle catacombe, ma anche negli ipogei di antiche chiese, tra queste le più famose sono la cripta di S. Maria del Purgatorio ad Arco, quella di San Pietro ad Aram, di S. Agostino alla Zecca, che si affiancano al cimitero delle Fontanelle ed alle catacombe di San Gaudioso, poste sotto la basilica di S. Maria alla Sanità.

Sono gli scheletri di morti di peste, in guerra, durante le carestie, oppure di soldati, stranieri, mendicanti, naufraghi; l’esito dell’immenso esercito di sconosciuti venuto alla luce dopo una lunga permanenza nelle fosse comuni.

La credenza popolare ritiene che i morti conoscano il futuro e possano comunicarlo ai vivi attraverso i sogni o altri segni; molti pensano che alcune categorie di trapassati: coloro che hanno subito una morte violenta(meglio ancora se decollati) posseggano facoltà superiori di divinazione.

In particolare le anime del purgatorio, per la loro precaria condizione tra aldiquà e aldilà, godono di una maggiore facilità di comunicazione con i viventi, soprattutto con quelle persone che, attraverso una sorta di adozione, hanno stabilito un solido legame.

Il fulcro del rito di adozione prevede la scelta di un teschio, prelevato dal gruppo anonimo e la sua collocazione in una cassetta di legno che funge da ex voto. La “capuzzella” sarà da allora oggetto di cure, preghiere e tributi, in cambio delle quali ci si aspetta protezione e soprattutto la conoscenza del futuro.

Taluni teschi acquistano una nuova identità ed un nome: come il Capitano, la suora Lucia, la Sposa, la bimba Maria, il Dottore e tanti altri e possono diventare oggetto dell’attenzione di altre persone al di fuori dell’adottante.

Si instaura così quel meccanismo di scambio, già conosciuto dagli antichi: i devoti si prendono cura dei resti mortali, recitano preghiere, fanno officiare messe di suffragio per alleviare le pene a cui sono sottoposte le anime del purgatorio, in cambio queste ultime diventano protettrici, fanno grazie, prevedono lo svolgersi di matrimoni, gravidanze ed affari e molto spesso suggeriscono i numeri vincenti del lotto.

Per ottenere questi favori fino ad alcuni decenni fa si celebravano riti collettivi di invocazione il venerdì precedente l’estrazione da parte di gruppi di donne che si riunivano nel camposanto napoletano.

I numeri vengono forniti attraverso i sogni e vanno interpretati utilizzando la Smorfia, un famoso libro che attribuisce ad avvenimenti e persone un numero corrispondente: 90 la paura, 23 lo scemo, 45 il canto del gallo, 71 l’uomo di m… e così via.

Una tela di Gaetano Gigante esalta una contaminazione di riti arcaici

Gaetano Gigante fissa sulla tela una delle feste più antiche e più sentite della tradizione napoletana: quella denominata della Madonna dell’Arco(fig. 5), un mix di sacro e pagano durante il quale, ancor prima che divenisse un ballo popolare, veniva praticata la tarantella, come si evince da un dipinto di Micco Spadaro eseguito nel quarto decennio del Seicento.

JPEG - 50 Kb
fig. 5 - Gigante Gaetano - Ritorno dalla festa della madonna dell’arco

Si trattava naturalmente, come ci raccontano scrittori napoletani e stranieri, di una forma scostumata, come una manifestazione di tipo orgiastico e dionisiaco.” Eccoli infatti lasciato il santuario versarsi a torrenti per le campagne circostanti e su i molli prati imbandir mensa e mangiare e trincare senza un pensiero al mondo”(Cossovich).

Il re Ferdinando IV fu perciò costretto a vietare le forme più spinte di furore godereccio attraverso un bando che metteva al bando “andar nudi per le piazze e per le strade, battendosi a sangue”, perché anticamente i partecipanti alla festa: i fujenti erano anche chiamati vattjenti, una caratteristica che rimane ai nostri giorni solo tra i seguaci dei riti settennali che si svolgono a Guardia Sanframondi.

Per fare una sortita nel medioevo o ancora più indietro all’epoca della colonizzazione della Magna Grecia non è necessaria alcuna mirabolante macchina del tempo, basta recarsi il lunedì in Albis a Sant’Anastasia al santuario della Madonna dell’Arco ed assistere al rito dei Fujentes, una tradizione che sfida i secoli, una sorprendente contaminazione di riti arcaici, un rito collettivo tra furore e superstizione, che sopravvive imperterrito alle sirene della modernizzazione.

A due passi dalle fabbriche di auto e di componenti aerospaziali per la Nasa, una moltitudine di pellegrini di tutte le età provenienti da ogni angolo della Campania accorre vestita di bianco, a piedi scalzi e sventolando variopinti stendardi tappezzati di banconote.

Una imprevedibile umanità che vive fuori dalla logica e dalla storia celebra ogni anno imperterrita un rito pasquale contaminato dalle antiche festività pagane, una resurrezione di Cristo, che si coniuga con il rifiorire della natura e delle messi.

Quasi duecentomila persone si mettono in moto all’alba e corrono per ore fino a raggiungere l’immagine della Madonna conservata nel celebre santuario, costruito sulle fondamenta di un antico tempio pagano, per sfruttarne imperscrutabili linee di forza, un segreto tenuto gelosamente celato dagli antichi costruttori.Al canto di nenie mielose e ritmiche litanie, che ricordano la melopea fenice ed araba, ingagliardite da uno squassante rullio di tamburi, i pellegrini arrivano alla meta esausti, moltissimi in trance, alcuni strisciando con la lingua a terra, quindi, dopo l’adorazione, cominciano con rinnovato vigore la via del ritorno, intervallando il percorso con soste dedicate a vorticanti tarantelle ed estenuanti tammurriate.

Il rito è uno stupefacente fossile vivente di antichi culti praticati su lontane sponde di quello che fu il Mare nostrum, dalla Grecia al nord Africa, fino alla lontana Andalusia.

Dall’alba al tramonto è una marea incontenibile di arcaiche energie sopite che esplodono all’improvviso tra pianti, preghiere, implorazioni disperate e voci assordanti, che rimembrano il richiamo del muezzin e le tradizionali grida dei venditori ambulanti.

A questa folla dolente ed esaltata negli ultimi anni si sono affiancati migliaia di nuovi arrivati: filippini, polacchi, latino americani e tantissimi rom, a tangibile dimostrazione della capacità delle antiche tradizioni di calamitare sorprendentemente sempre nuovi devoti.

Questi originali pellegrini chiedono spesso una grazia alla Madonna e sono prodighi di ex voto, un fiume in piena conservato nella chiesa dal Cinquecento ad oggi. Spesso si richiede la fertilità, come reclamavano le fanciulle sterili che si affollavano ai piedi della dea Cibele o nei secoli successivi baciavano ardentemente il pesce di Nicolò, ma negli ultimi anni, segno dei tempi mutati, si implora sempre più spesso di liberarsi dal flagello della droga, una nuova esigenza testimoniata dalle numerose siringhe d’argento appese in bacheca tra gli ex voto, come se un sottile filo volesse collegare nell’immaginario popolare le austere Matres matutae, oggi visibili nel museo di Capua alle coraggiose madri dolorose presenti nelle squallide periferie dove la vita è lotta e molti vengono travolti.

Le grotte napoletane ed i riti orgiastici

Lo splendido quadro del museo cantonale di Losanna raffigurante la Grotta di Posillipo(fig. 6), eseguito da Abraham Ducros, un artista svizzero, come tanti stranieri innamorato di Napoli, ci conduce in quel mondo misterioso ed affascinante costituito dalle caverne napoletane, una vera e propria città sotto la città, che pochi conoscono e viceversa costituiscono un patrimonio ancora da sfruttare per il turismo e per dare un po’ di respiro al traffico caotico che ogni giorno ci fa impazzire.

Non è stato il mare a forgiarle e nemmeno i fiumi sotterranei e le piogge, bensì il lavoro ostinato dell’uomo, che per venticinque secoli ha inciso un materiale, facile da tagliare, leggero e resistente: il tufo, con il quale sono stati costruiti palazzi altissimi, tali da destare la meraviglia dei visitatori.

JPEG - 30.1 Kb
fig. 6 - Abraham Ducros - La grotta di Posillipo - carta su tela - 79 - 110 - Losanna museo cantonale di Belle arti

Sono state scavate inoltre lunghe gallerie per portare l’acqua sotto ogni casa, un mirabile acquedotto, che ancora oggi può essere percorso per chilometri.

Dal mitico Antro della Sibilla alla Crypta Neapolitana, dove si praticava il culto di Mitra, fino ai percorsi segreti, attraverso i quali truppe forestiere invasero la città, come quelle di Giustiniano e quelle degli Aragonesi.

E nell’ultima guerra hanno fornito un rifugio sicuro alla popolazione durante gli oltre cento bombardamenti aerei regalatici dai nostri futuri alleati…

Non solo grotte perciò, ma anche gallerie, catacombe, pozzi, condotte e trafori vari, un immenso reticolo che brama di vedere la luce.

La grotta di Piedigrotta è stata per secoli, forse millenni, teatro di pratiche orgiastiche in onore di Priapo, che periodicamente impegnavano giovani di entrambi i sessi, i quali davano libero sfogo alle loro più elementari pulsioni con innegabili benefici per il corpo e lo spirito. Il buio della caverna faceva cadere ogni inutile inibizione e alimenti energetici venivano in soccorso ai maschi impegnati in defatiganti amplessi (la famosa sfogliatella dalla forma che rammenta il pube femminile era il viagra dell’epoca).

Con l’avvento del Cristianesimo questi costumi scostumati sono stati incanalati in una più tranquilla festività a cadenza annuale, durante la quale gli istinti repressi potevano sfrenarsi in balli e strusciamenti reciproci; nasce la famosa Piedigrotta napoletana, assassinata negli anni Settanta del secolo scorso dal traffico caotico della città e da amministratori miopi e sconclusionati. Erano feste memorabili, che duravano fino a quindici giorni, durante le quali, al passaggio dei mastodontici carri allegorici, era permesso un po’ di tutto: urlare, sbracciarsi, calare coppoloni in testa a tipi “soggetti”, esercitare vigorosamente la mano morta su sederi di tutte le età, pur senza trascurare eventuali seni generosamente esposti, dimenticando in tal modo le angustie quotidiane. L’antico spirito greco della festa, nata tra venerazioni priapiche e sfrenate danze liberatorie, sembrava rivivere nel popolo festoso, esaltando lo spirito trasgressivo e godereccio dei napoletani.

Meno famose della celebre sorella sono le grotte Platomonie, poste lungo il litorale dell’antico borgo di S. Lucia ed oggi, in parte abbandonate o vergognosamente trasformate in garage, che potrebbero dare un sollievo allo scottante problema del parcheggio, ma da anni al centro di una diatriba (truffa) infinita tra squallidi speculatori ed una giunta comunale collusa ed incapace. Questi anfratti sono il prodotto erosivo dell’acqua sulla roccia nel corso del tempo e derivano il loro nome dal greco platamon. Alcune furono adoperate per l’allevamento delle murene, ma la loro fama è legata ad un particolare rito orgiastico, che si svolgeva più volte all’anno e consisteva nell’incontro tra una menade incoronata da un’alga marina ed uno jerofante agghindato da uomo pesce che la fecondava.

A partire dal Quattrocento il rituale subì una sorta di legalizzazione ed i due officianti erano freschi sposi che consumavano il matrimonio alla presenza dei membri di una setta, che accompagnavano la deflorazione con ritmiche cantilene e preparavano un’atmosfera adeguata bruciando essenze profumate inebrianti in tripodi ornati di falli alati del tipo di quelli che gli scavi di Pompei porteranno alla luce secoli dopo.

“Nelle deliziose grotte Platamonie per rinfrescare gl’immensi ardori dell’estate, passeggiavano quinci e si riparavano con spessi e sontuosi conviti, ricevendo dispogliati la grata aura e il desiderato fiato di ponente, e nudi tra le chiare onde a nuoto si difendevano dal noioso caldo’. Benedetto di Falco, secolo XV.

’Quivi, come narrasi, la gente allegra e spensierata accorreva a banchettare e a darsi spasso; finché i sollazzi mutati, poscia, in orge scandalose, resero quei luoghi dei sozzi postriboli’. Loise de Rosa, 1452.

Vari autori ci raccontano che oltre a rituali i luoghi erano adoperati anche per ammucchiate che di iniziatico avevano ben poco.

Anche la malavita cercava di usufruire di un nascondiglio sicuro per nascondere merci di contrabbando e mal tollerava l’utilizzo con finalità erotiche delle grotte, per cui fece giungere al viceré don Pedro da Toledo notizia delle orge scandalose che vi si svolgevano. Il risultato fu la distruzione delle stratificazioni più profonde e la chiusura di tutte le altre. Al medesimo viceré si deve l’ampliamento cinquecentesco che per la prima volta inglobò all’interno delle mura il monte Echia, ancora in epoca aragonese fortezza militare siti Perillos, propaggine esterna della città.

Ma dove si sono ripetuti a lungo riti intrisi di tradizione e di mistero e si è scatenata incontenibile la furia erotica, i luoghi restano impregnati da forze che molto lentamente decantano ed a nulla valse murare le grotte più profonde adibite alle congiunzioni carnali più folli e scatenate; dal sottosuolo emanano sedimentazioni energetiche, viscerali, piroclastiche, telluriche, sibilline e più volte sarà capitato a qualche signora o signorina, passeggiando per via Chiatamone, senza capirne il motivo, di avvertire chiaramente un dolce, improvviso, irrazionale, irrefrenabile desiderio di sesso più che di amore.

L’antica festa del Carnevale in un dipinto di Alessandro D’Anna

Al Salone dell’antiquariato di Napoli è esposto un dipinto(fig. 7) di Alessandro D’Anna che raffigura una festa di Carnevale del 1774 con sfilata di carri a Largo di Palazzo, l’attuale piazza del Plebiscito.

La tela, di altissima qualità, si affianca ad una simile conservata al museo di San Martino e costituisce un lampante documento visivo di una festa mitica che a Napoli per secoli ha costituito una eccezionale attrazione.

Nel quadro si affollano carri e cavalli bardati diligentemente in fila, uomini impettiti nelle loro uniformi sgargianti, legioni di Pulcinella danzatori, cappelli impiumati in una fantasmagorica gara di eleganza, mentre il pubblico applaude gaudente.

Attraverso piccole pennellate pregne di sostanza cromatica l’artista ci racconta una delle più esaltanti feste europee, una manifestazione viva e palpitante della cultura napoletana dell’epoca.

La madre di tutte le feste partenopee, dal Carnevale alla Piedigrotta, partiva dal ventre dei quartieri spagnoli e si imperniava sul mitico Carro del Battaglino

Erano tempi felici, tra i vicoli di Montecalvario non regnava la famiglia Mariano e la zona non era come oggi ridotta a triste ricettacolo di prostitute e lenoni, extra comunitari e femminielli, tossici e spacciatori, bensì era la residenza di famiglie nobili e di membri dell’illuminata borghesia partenopea.

Affianco alla chiesa di Santa Maria di Montecalvario esisteva una confraternita ed i membri di questo sodalizio erano, a partire dal 1620, gli organizzatori di queste processioni che partivano la sera del sabato santo ed attraverso via Toledo raggiungevano il Palazzo Reale per poi rientrare

La sfilata, giudicata dai contemporanei la più bella d’Europa, constava di vari carri con le raffigurazioni dei Misteri e di uno sul quale era l’Immacolata. Questo carro era il più celebrato ed al suo allestimento collaboravano artisti famosi come Giacomo Del Po e Gennaro Greco. Esso era ornato da figurazioni bibliche ed allegorie religiose, ma nel 1684 se ne costruì uno con l’imperatore che schiacciava il turco ed anche nel Settecento se ne fecero altri a carattere politico. Una folla enorme seguiva la processione con il viceré in prima fila.

La sua fama percorreva il continente e grandi personaggi accorrevano a Napoli per assistervi. Alcune volte, per permettere a qualche ospite di eccezione della Corte di assistervi, ne venne spostata la data. Celebre l’episodio del 1630, quando nella nostra città si trovava l’infanta Maria, sorella di Filippo IV, che doveva essere ritratta dall’immortale pennello del Velazquez, ospite del Ribera.

JPEG - 50.2 Kb
fig. 7 - D’Anna - Carnevale

Il Carnevale e la stessa Piedigrotta con la mitica sfilata dei carri erano figlie di questa celebre processione, che durò poco meno di due secoli.

A partire dall’Ottocento cominciò a prendere piede la sfrenata festa di Piedigrotta, che raggiunse il culmine negli anni del regno di Lauro. Chi ha i capelli bianchi ricorda quelle memorabili maratone di gioia popolare che duravano quindici giorni. Durante il passaggio per le strade cittadine dei mastodontici carri era permesso un po’ di tutto: sbracciarsi, calare coppoloni in testa a tipi soggetti, esercitare vigorosamente la mano morta su sederi di tutte le età, pur senza trascurare eventuali seni generosamente esposti, dimenticando in tal modo le angustie quotidiane.

L’antico e mai sopito spirito greco della festa, nato tra venerazioni priapiche e sfrenate danze liberatorie, sembrava rivivere nel popolo festoso, esaltando lo spirito trasgressivo e godereccio dei napoletani.

Bei tempi per chi li ha vissuti, oggi non ci resta che sperare che questo pregevole dipinto, raro documento figurativo dei tempi passati, possa essere acquistato dallo Stato e destinato al museo di San Martino, a rammentare il nostro illustre passato quando Napoli era la capitale di un regno e non della spazzatura.