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L’innocenza della fuga, David and Matthaus, 2015

L’innocenza dei ribelli

Rabbia e speranza giovanile in una Italia rassegnata. Una chiacchierata con l’autore.
giovedì 1 dicembre 2016 di Andrea Comincini

Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Nicolas Alejandro Cunial


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Quando si legge il romanzo di un giovanissimo esordiente, sebbene abbia già familiarità con altre forme di scrittura, ci si imbatte spesso in un rischio concreto: venire delusi da una prosa acerba, satura di sensazionalismo o vittima di una trama incompiuta. È un esito quasi scontato. Ebbene, Nicolas Alejandro Cunial si trova agli antipodi di questa critica. L’innocenza della fuga racconta le storie di alcuni giovani trevigiani, impantanati in una provincia grigia e sfocata, dove il futuro è incubo e non speranza. Disapprovazione sociale e destini personali si intrecciano in un racconto nel quale colpisce la maturità stilistica e la padronanza della forma, evitando al lettore le delusioni di cui sopra, e destinandolo a restare piacevolmente sorpreso dalla bontà e freschezza della storia.

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Nicolas Alejandro Cunial

Alex, un giovane ragazzo schiacciato da un lavoro in fabbrica, prova a reagire insieme ai suoi amici e alla fidanzata Ambra a una vita inconsistente, ectoplasmica: condannati a subire la volgarità fascistoide della provincia italiana – ormai dilagata su tutto il territorio nazionale, verrebbe da aggiungere – si inventano un modo per reagire, per lasciare un segno. Quale sarà l’esito non verrà ovviamente rivelato. Qui interessa sottolineare che i protagonisti, simbolo di una generazione di giovani che ormai comincia ad avere anche i capelli bianchi, è e resterà sempre innocente, perché la sua ribellione nascerà comunque per salvare il proprio diritto a una dignità a cui non rinunciare mai.

È una scrittura che ossigena il sangue quella di Nicolas, tenace e poetica come i personaggi da lui tratteggiati. Dopo la lettura del suo bel romanzo sono nati in me alcuni quesiti.

Ho avuto il piacere di incontrarlo e di chiacchierare con lui, e queste sono le sue risposte.

- Buongiorno. Prima di tutto vorrei chiederti: come è nato il tuo personaggio? Intendo nella tua testa, e poi quando hai deciso che doveva vivere fuori di te?

Alex c’è sempre stato: è una sommatoria di persone che mi circondano, rappresenta ciò che non vorrei essere a causa della società. La notte delle ultime elezioni comunali a Treviso, si è manifestato con molta forza: era incazzato nero perché nessuno vedeva la bugia in cui era immerso. Lui è un lottatore, ha delle qualità che io ricerco ma non ho. Per me è come un fratello, mi sono affezionato tanto a lui che durante la stesura del romanzo, devo ammetterlo, dove lui soffre, sono stato male. Alex rappresenta la depressione che si fa rabbia creativa.

- Hai descritto una Treviso e una Italia ormai ben nota a tutti, senza però essere ripetitivo o retorico. Mi chiedo se l’esercizio della scrittura ti ha sollevato, come fosse una confessione, o ha ampliato la tua amarezza.

Entrambe. Purtroppo scrivendo il romanzo ho preso ancora più coscienza del dove viviamo. L’esercizio della scrittura, proprio per lo stile che ho scelto, è stato fantastico: mi ha permesso di formare completamente la mia voce, o meglio quella di Alex, e di darle una profondità a cui anelavo. Purtroppo il sollievo di aver messo tutto nero su bianco è sempre passeggero: se non si fa qualcosa affinché certe cose non debbano essere riscritte, ci si ritroverà a scrivere sempre lo stesso.

- C’è una protagonista femminile, una donna dal nome lucente e opaco, come quel mondo: Ambra. Mi ha colpito la capacità di descrivere la femminilità. Per lei vale la frase di Adorno che dice: sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza.. Come è nata?

Ambra è il mio ideale, la donna dei miei sogni, che non è soltanto un’amante ma anche una compagna. Ho scoperto affiancandola ad Alex che funzionavano molto bene assieme, perché c’è la comprensione prima della presa di posizione. Le persone prima di chiedersi cosa avrebbero fatto loro al posto dell’altro dovrebbero chiedersi come starebbero se avessero preso le stesse decisioni. Ambra è molto comprensiva, ama in modo puro e gentile. Ma una donna così, purtroppo, credo esista solo nel mio libro.

- Sulla tua prosa: in molti passaggi (piuttosto in controtendenza con le linee del momento), hai optato per uno stile che rende la tua scrittura estremamente poetica – quanto è fondamentale per la realizzazione formale di alcuni motivi di fondo del romanzo?

Io prima di essere scrittore, sono un poeta. La mia scrittura, quindi, per quanto in prosa, non può tradire le sue radici. La trama mi ha aiutato molto in questa scelta: è una trama oscura, fatta di quotidianità ed elementi quasi irreali. Una storia così forte necessitava di una scrittura esasperata, iper-concentrata. La prima stesura era di oltre 200 pagine. La definitiva, mi sembra la sesta, era di 150. Il lavoro del poeta è a togliere, lasciare il succo, il concentrato, appunto. In questo credo di essermi rispettato. Inoltre la voce di Alex è sempre stata quella, non potevo tradirla, o la storia avrebbe perso tutto il suo senso. Con un altro stile di scrittura, credo che il romanzo avrebbe perso molto.

- Secondo te la letteratura ha ancora una incidenza sociale? O almeno dovrebbe (o almeno dovrebbe tornare a farlo), in un contesto in cui si tende sempre di più a svuotare di significato ’politico’ le storie che si narrano (l’impero dello storytelling,) per assecondare logiche di mercato che sono orientate esplicitamente alla creazione di un pubblico di consumatori e non di lettori?

Non lo so, ho provato molte volte a farmi questa domanda e sono diviso tra ciò che vorrei che fosse e ciò a cui non voglio credere che sia. Che dovrebbe tornare ad avere una incidenza sociale, sì, dovrebbe, ma credo che sia ormai utopistico: le persone non si appropriano di ciò che è loro perché ignorano la proprietà stessa. Inoltre il problema è diffuso a tutti i livelli: case editrici, editor, scrittori, librerie e lettori. Secondo me sono tutti colpevoli di ciò che è oggi. Io ho scritto questo romanzo perché sentivo di farlo, e nutro una qualche speranza, che abbia sì un’incidenza sociale, ma, come dire, in questa speranza ci spero poco.

- Una domanda ancora, prima di salutarti: il finale, di cui non dirò nulla, è la confessione che la redenzione in questo paese rischia di essere sempre più una scelta del singolo, e non della collettività. Oggi, come ti senti. È cambiato qualcosa?

Rispetto a quando ho scritto il libro, certamente no. Questi fenomeni sociali impiegano decenni ad evolversi. Oggi l’uomo, mi pare evidente, è più votato a sé stesso che alla collettività. Sono venute meno le coscienze unitarie, le ideologie, le azioni aggreganti insomma. Sembra soltanto una grande corsa al profitto a scapito della qualità della vita. Nel nordest questo lo si è visto bene. Purtroppo è inutile sperare che la redenzione dell’uno comporti la redenzione di tutti: ci sono stati episodi in questo Paese di una tale violenza che speravo fossero un punto di rottura – l’uomo che si diede fuoco davanti al Parlamento, per esempio – ma che a parte trovare un’eco nei giornali e nei bar, non attivano per niente dei processi di miglioramento, di una presa di coscienza anche individuale. Sembra che ognuno pensi che il cambiamento debba prima cominciare dagli altri, ma che se non li investe forse allora non vale nemmeno la pena sforzarsi.

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