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Rubrica: CULTURA


PASSEGGIANDO CON ROBERT WALSER

Lo scrittore che voleva essere dimenticato
domenica 1 giugno 2014 di Andrea Comincini

Argomenti: Letteratura e filosofia
Argomenti: Personaggi famosi/storici


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Alcuni uomini agognano alla fama, altri la ripudiano. Robert Walser (1878-1956) appartiene ai secondi e, per sua fortuna, con gioia. Ricorda infatti l’amico Carl Seelig, durante una visita all’ospedale psichiatrico dove lo scrittore trascorse gli ultimi anni di vita, lo sgomento apparso sul volto del compagno quando disse che secondo lui la sua opera avrebbe raggiunto l’immortalità. Cupo in viso, Walser gli intimò di non fare più simili considerazioni, perché voleva solo sparire, essere dimenticato.

Di questo instancabile osservatore austriaco si sa poco, (certamente il lettore medio contemporaneo non lo annovererebbe mai fra i più grandi artisti del ‘900): oltre a saper scrivere, passeggiava per ore ed ore senza sosta, raccogliendo probabilmente dentro di sé quei pensieri che poi avrebbero trovato forma sulla carta nuda. Walser ha raggiunto il suo obiettivo, cioè sparire, non essere nessuno, ma ogni successo che sembra eterno in realtà è transitorio.

Ce lo insegna il personaggio di Jacob Von Gunten, dell’omonimo libro, un ragazzo chiuso in un collegio dal tempo immobile, il quale si troverà tuttavia ad affrontare il mondo reale, transeunte, ovvero la vita. Nascondere un tesoro non è possibile, ci saranno sempre dei cercatori, ed è quindi chiaro perché i libri di Walser furono amati da Kafka, il quale si sbellicava dal ridere nel leggere alcune sue prose brevi, e non è sfuggito ai più grandi critici – si pensi a Benjamin, Musil o Canetti – la statura della prosa. Proprio dall’opera dunque, si tenterà di rispettare la volontà dell’autore, ovvero di dimenticarne l’esistenza, nella speranza tuttavia che il prossimo libro da acquistare in libreria sia uno dei titoli proposti, e non i soliti ricettari di cucina.

“La passeggiata”, del 1917, riporta le immagini, i pensieri e gli incontri avvenuti durante una lunga camminata dell’autore, e svela, in maniera esemplare, alcune caratteristiche della prosa walseriana. Una di esse è certamente l’esser menzognera, secondo quanto sosteneva G. Manganelli a proposito della letteratura.

La luminosità gioiosa incastonata nelle righe, la solare freschezza dei paesaggi lagunari tanto cari allo scrittore, accompagnano il lettore dentro un sentiero incantato. Qui si incontrano sarti, uffici postali, gente comune. I colori sono nitidi, le frasi ironiche e serene, i discorsi consistenti. Walser procede, e nel procedere racconta la vita, anche con le sue bassezze, le figure meno eroiche eppure essenziali che ci circondano (si ricordi che impiegati, servitori e “sottoposti” sono parte centrale della sua cosmologia, anche per aver svolto direttamente quelle mansioni cosiddette umili). Il passo è lieve, “sano”: gli intoppi non rappresentano ostacoli, ma opportunità descrittive. A volte si potrebbe pensare, frettolosamente, di scorrere una prosa ingenua, ma non è così.

Già in un altro lavoro, “I temi di Fritz Kocher”, Walser riporta i pensierini di un giovane scolaro e sembrerebbe restituire dei concetti addirittura ingenui. Si pensi al tema della povertà che inizia così: - Si è poveri quando si viene a scuola con la giacca strappata [...]- , oppure al “pittore” : - Cos’è la felicità? Io penso, sentirsi costantemente a proprio agio! Ma gli artisti non si sentono mai, o soltanto raramente, a proprio agio. Conoscono male questo sentimento, oppure non sono capaci di imparare a conoscerlo e ad apprezzarlo -.

Anche nel testo “ La Passeggiata” si respira la stessa aria, ma ad una diversa altitudine esistenziale. Il vagabondaggio, assai caro alla letteratura e alla musica del tempo (Eichendorff, Mahler), non è solo metafora di un’altra vita, ma persino di un mondo diverso, inciso fra le righe della scrittura. La sensazione più forte che si prova nel leggere Walser, infatti, non è l’appagamento prodotto dallo stile sincero – artificiosamente sincero – ma dal non-detto, dall’immagine chiaroscurale nascosta in ogni sillaba.

Come Giano Bifronte, la scrittura di Robert Walser rimanda ad altro, allo-agoreuei, secondo l’interpretazione heideggeriana nei “Sentieri interrotti”, un luogo inaccessibile, forse il lato inconscio e schizofrenico dell’autore, oppure semplicemente l’imponderabile che emerge in ogni dove durante il nostro cammino.

Eccone uno stralcio: - Sarebbe stato semplicissimo, e nient’altro che giusto, confessarle apertamente “io l’amo”. Tutto ciò che la riguarda mi sta a cuore come ciò che riguarda me… Per molte e belle buone ragioni desidero renderla felice… Ma poiché non me n’ero più dato cura, lei se ne era andata… Ho raccolto fiori solo per deporli sulla mia infelicità? – mi domandai, e il mazzolino mi cadde di mano…. M’ero alzato per tornare a casa: era già tardi, e tutto si era fatto buio -. Così si conclude la lunga camminata.

Dopo le luci calde ed i volti interessanti, appare l’oscurità, un buio nordico, forse persino più profondo di quello germano-austriaco. Ricorda i paesaggi scandinavi tratteggiati da artisti quali Kittelsen, da scultori come Vigeland; rimanda a certi scorci di ibseniana memoria, al colore freddo delle acque dei fiordi. Il contrasto tra salute e luce con il buio e la malattia non sono casuali, non possono esserlo. La sua innocenza si smarrisce, alla fine del cammino l’uomo non è redento, e nonostante la scrittura abbia svolto il proprio dovere, la vita sembra prendere il sopravvento. Il buio che avvolge i boschi ed i laghi tanto amati raggiunge persino le viscere, ed impone l’oblio.

Walser rivela una mestizia celata, un vagabondaggio stavolta non più allegro, ma inquieto, proprio come l’ultimo da lui svolto il pomeriggio di Natale del 1956, prima di morire, nel cuore dell’inverno innevato, ma questa è biografia, e stiamo tradendo la promessa di dimenticarlo.