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I dipinti di Andrea Vaccaro per le chiese napoletane


domenica 1 giugno 2014 di Achille della Ragione

Argomenti: Arte, artisti


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La sua prima opera documentata è del 1629, una Madonna di Costantinopoli con due beati, eseguita per la chiesa della Trinità delle Monache, della quale non vi è traccia nelle più attendibili guide dal Celano al Galante, ma esiste il documento di pagamento pubblicato da Nappi.

Molto antico è certamente il Crocifisso (fig. 1) conservato nella sacrestia della chiesa di S. Teresa a Chiaia, eseguito su tavola e percorso da un afflato battistelliano, che richiama a viva voce il celebre San Sebastiano del museo di Capodimonte.

Tra i suoi primi lavori vi è poi la copia, famosissima, della Flagellazione (fig. 2) di Caravaggio, attualmente a San Domenico Maggiore, sede primaria della tela del Merisi oggi a Capodimonte, nella quale, pur con decorosa modestia, sfida il confronto diretto con l’originale, uscendone sconfitto principalmente nella cura del chiaro scuro applicato con rigidezza quasi scolastica, come in tutta la sua prima fase immersa nell’orbita della pittura naturalistica, alla quale egli si accosta già nel corso degli anni Venti in un’accezione battistelliana, applicando sistematicamente un chiaroscuro monocromo, senza trascurare uno sguardo ai maestri più antichi dal Sellitto al Vitale.

Fra le opere giovanili la critica pone anche il sontuoso Crocifisso con San Giovanni e le tre Marie (fig. 3), collocato sul terzo altare a sinistra nella chiesa della Trinità dei Pellegrini, il quale, donato alla Compagnia nel 1741, nel rifacimento settecentesco, fu adattato alla nicchia ed andò a sostituire una Madonna della Purità attribuita a Juan Do. Il dipinto, di recente restaurato, non possiede la morbidezza di ascendenza luministica del Crocifisso della chiesa di S. Teresa a Chiaia, né i toni corruschi del San Sebastiano, ma mostra una adesione al pittoricismo di un Pietro Novelli ed è collocabile cronologicamente negli anni in cui il Vaccaro eseguiva a San Martino le Storie di S. Ugo. Ed a quegli anni appartiene anche la Madonna del Rosario (fig. 4) conservata nella chiesa di San Giuseppe Maggiore al rione Luzzatti, che costituisce a parere di Stefano Causa un estremo omaggio all’omonima pala del Caravaggio, oggi a Vienna, ma per alcuni anni visibile a Napoli. Il dipinto è citato dal De Dominici, ma non tutti gli studiosi ritengono sia del Vaccaro, il quale “compone una regolata, estrema mescolanza di elementi caravaggeschi, anche desunti dal cartello napoletano”.

Intorno al 1635 va posto il San Nicola di Bari con la Vergine (fig. 5) della chiesa di S. Maria della Purità agli Orefici, edificata l’8 febbraio di quell’anno. La pala sembra ispirata allo stile delle prime opere di Filippo Vitale nella solidità strutturale dei bimbi miracolati, dei putti gioiosi, del coppiere.

Del 1636 è viceversa la famosa Maddalena (fig. 6) del coro dei Conversi della Certosa di San Martino, una delle più belle opere del Vaccaro, raffigurante l’atto della penitenza. Si tratta di una tela di raffinato pittoricismo tutta pervasa da quegli umori vandichiani dei quali Vaccaro fu il più entusiasta elaboratore napoletano. Con queste parole il Causa descriveva la Maddalena ed è importante notare che il termine vandichiano veniva dall’illustre studioso adoperato per la prima volta, ad indicare un predominio del cromatismo sul luminismo, una tendenza che comincia a manifestarsi in quegli anni nella temperie artistica napoletana.

Così descrive il quadro il Tufari nel 1854 nella guida della chiesa:” La santa vestita di ruvide pelli e con le trecce scarmigliate ha fisso al cielo lo sguardo su cui vi è l’impronta del dolore per lungo pianto dei suoi peccati, in alto è un gruppo di tre vaghi putti”. L’Ortolani ne mise in risalto la dipendenza dai modelli del Reni, di cui “ne trascrive le forme nel carnoso e patetico dialetto partenopeo, penetrando le zone di luce di una polpa riberiana”. Dopo l’analisi fatta da Raffaello Causa la Maddalena ha costituito il punto di partenza per ogni ricostruzione dell’attività del pittore.

Il soggetto della Maddalena è stato più volte trattato dal Vaccaro nel corso della sua carriera, spesso con significative varianti, come pure circolano numerosissime copie di bottega ad opera di imitatori. Tra le Maddalene autografe ricordiamo, in Sicilia, due dipinti del museo di Pepoli a Trapani e della Galleria Regionale a Palermo; in Spagna, dove il pittore esportava gran parte della sua produzione, una tela a Madrid nella collezione del duca d’Alba ed infine repliche di grande qualità al Metropolitan di New York e nel museo di Rio De Janeiro.

La Tentazione di Cristo nel deserto (fig. 7), già nella chiesa di S. Maria della Sapienza è documentato da una polizza di pagamento del 1641, pubblicata nel 1888 dal Bonazzi, anche se nella causale si parla di un quadro con sei personaggi, mentre in quello pervenutoci ve ne sono due soltanto. Questo dettaglio, oltre ad uno stile lontano da quello del Vaccaro, ha indotto alcuni studiosi a porre in dubbio l’autografia; tra questi Renato Ruotolo che lo attribuisce, non senza motivo, ad Enrico de Semer, ipotesi che riteniamo debba essere valutata con ponderazione. Il dipinto si trovava sul lato sinistro della chiesa e faceva parte di una serie di sei quadri sulla vita di Cristo eseguiti da altrettanti pittori attivi in quegli anni a Napoli.

Tre documenti di pagamento tra il 1650 – 51, pubblicati da Nappi, ci permettono di datare con precisione la Morte di San Giuseppe (fig. 8), posta nelle terza cappella sul lato sinistro nella chiesa del Purgatorio ad Arco. In questa pala d’altare, una delle più note dell’artista ed a lungo mal collocata cronologicamente dagli studiosi, la sintesi operata dal Vaccaro delle varie correnti presenti a Napoli giunge ad un punto di maturazione con un pacato equilibrio compositivo ravvivato dai personaggi principali che attraverso gesti eloquenti sembrano dialogare fra loro ed esprimono un pathos contenuto, ma profondo, utilizzando soluzioni pittoriche di palpabile felicità cromatica, che giungono ad esiti di toccante drammaticità. Le mani del Cristo e della Vergine danno l’impressione di definire spazio e sentimenti, alla pari del defunto e degli angeli posti in alto.

Nel 1652 Vaccaro è di nuovo impegnato nella Certosa di San Martino dove illustra le Storie di S. Ugo nella cappella omonima. I due dipinti raffigurano S. Ugo che resuscita un fanciullo (fig. 9) ed Il santo impegnato nella costruzione della cattedrale di Lincoln (fig. 10). Di entrambi sono stati pubblicati dalla Petrelli e da Spinosa i bozzetti preparatori, uno (fig. 11) in collezione privata italiana, l’altro (fig. 12) nella Staatsgalerie a Schleiheim.

Il De Dominici definisce le composizioni eseguite “con buon disegno ed ottimo intendimento di colorito”. Il Causa le riteneva “ tele di ripiego visto che all’altare vi è la tela di Stanzione la Vergine con S. Ugo e Antelmo”. Pur trattandosi di quadri complementari il pittore non teme il confronto col celebre collega e si rifà al plasticismo alla Vitale, costruendo figure solide, che rendono viva l’ambientazione architettonica. Oltre ai modi del Vitale si evidenziano precisi interessi a modelli naturalistici tra Ribera ed Aniello Falcone, soprattutto nella resa vigorosa dei particolari anatomici.

Il Vaccaro ha oramai perfezionato il suo stile ed è entrato pienamente nel nuovo corso della pittura napoletana, orientato a recepire le istanze del classicismo emiliano e della corrente neoveneta di ispirazione vandichiana.

Agli stessi anni pensiamo possa appartenere una misconosciuta pala d’altare sita nella quarta cappella a sinistra della chiesa di Donnalbina, raffigurante La Madonna, Maria Maddalena e San Giovanni Evangelista (fig. 13), la quale, per quanto siglata, era attribuita erroneamente al Marullo.

Nel 1659 esegue le due pale d’altare per la chiesa di S. Maria della Sanità, raffiguranti Lo sposalizio mistico di S. Caterina d’Alessandria (fig. 14) e Gesù che appare a S. Caterina da Siena (fig. 15) due opere ispirate a schemi di serena, contegnosa, classicheggiante serenità; già lodate dal De Dominici, che apprezzava la sua nuova maniera”mirabilmente migliorata”. Entrambe siglate, presentano brani di estrema raffinatezza, come la levigata figura della santa o il gruppo della Vergine con il Bambino che porge l’anello a S. Caterina, ostentatamente vestita di abiti preziosi, mentre in alto cinque puttini volanti sollevano un ricco tendone.

Puttini che derivano direttamente dal volo elegante di angeli nel San Gaetano presente nell’oratorio del SS. Crocifisso dei Nobili, dove Vaccaro eseguì nel 1658 due quadri raffiguranti San Gaetano riceve Cristo da Maria (fig. 16) e Sant’Andrea mentre riceve i simboli della Passione (fig. 17), posti ai lati dell’altare e per i quali il Vaccaro riceve due pagamenti, uno a febbraio ed uno a maggio. Questo oratorio, citato già dal Celano, si trova nel chiostro della chiesa di San Paolo Maggiore e, divenuto congrega nel 1553, fu frequentato da San Gaetano Thiene ed in anni successivi da Sant’Andrea Avellino.

A partire dal 1660 l’attività del Vaccaro nelle chiese napoletane si intensifica e la sua fama cresce sempre più, come dimostra la contesa con Luca Giordano che lo vede vittorioso per l’assegnazione della pala (fig. 18) per l’altare maggiore della chiesa di S. Maria del Pianto, sorta, all’indomani della terribile peste del 1656, sulla collina di Poggioreale, nei pressi della grotta detta degli sportiglioni, adibita ad enorme fossa comune per i morti vittime della pestilenziale epidemia.

La disputa tra i due pittori ci viene raccontata dal Baldinucci e dal De Dominici:”ne fu commesso il giudizio a Pietro da Cortona, Andrea Sacchi, Giacinto Brandi, Baciccio ed altri valentuomini che a quel tempo fiorivano a Roma, i quali esaminarono i disegni, overo i bozzetti mandati dal Vaccaro e dal Giordano e ne rimisero finalmente il giudizio al Cortona, il quale decide a favore del Vaccaro come di Maestro più faticato e più vecchio nell’arte del quale era buona fama a Roma”. L’aver posto il suo quadro in posizione dominante con in sottordine le due tele del rivale lusingò certamente Andrea, anche se percepiva chiaramente l’arrivo dell’onda lunga del Giordano.

L’opera è stata di recente restaurata e restituita allo splendore cromatico del passato ed oggi è visibile presso il museo diocesano, dopo essere stata a lungo esposta a Palazzo Reale in compagnia dei due quadri del Giordano. Il soggetto rappresenta la Madonna, che con la sua preghiera verso il Figlio chiede il perdono e di mitigare la furia dell’epidemia. Alla supplica partecipano attivamente le anime del Purgatorio, raffigurate nella parte bassa della composizione, dando luogo ad una forma a spirale della narrazione ed accentuando così il pathos della scena.

La pala rappresenta un compendio della sua attività ed in essa si esprime un sostrato battistelliano su cui emerge l’ascendente di Stanzione, mentre la gamma cromatica è influenzata dal pittoricismo di uno dei principali seguaci italiani di Van Dyck: Pietro Novelli. Negli anni precedenti l’esplosione del barocco, Vaccaro si impone come uno dei principale esponenti della pittura napoletano, ruolo riconosciutogli dalla committenza ecclesiastica, in grado di apprezzare i suoi”santi, così belli, maestosi e divoti” e le sue storie sacre impregnate di patetismo, mentre i collezionisti laico borghesi continuavano a chiedergli ritratti di sante in estasi dalle scollature abissali.

 

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